Alcune riflessioni a proposito dell’articolo “L’astensionismo ha radici economiche” comparso il 14 ottobre ’22 nel giornale online di informazione economica “Lavoce.info”
di Bruno Perazzolo e Gabriella Morello
L’articolo, firmato da Riccardo Cesari, fornisce l’evidenza empirica della relazione tra la povertà, accompagnata da crescente disuguaglianza economica, e il fenomeno dell’astensione dal voto che, negli ultimi decenni, mostra un andamento esponenziale. Correttamente il testo indica come tutto ciò impatti negativamente sulla democrazia e, più in generale, sulla partecipazione politica intesa anche in un’ottica minimalista: quella della partecipazione al dibattito e alla conseguente ricerca attiva di informazioni attinenti la gestione della vita pubblica. Sulla base di questi fatti incontrovertibili e ben esposti dall’autore, ci sembrano opportune alcuni approfondimenti.
In primo luogo occorre registrare come da decenni il fenomeno sia qualitativamente pienamente conosciuto e “puntualmente denunciato” per poi cadere nell’oblio di lì a qualche giorno. Ovviamente, il rilievo non riguarda principalmente coloro che, non recandosi al seggio, manifestano il totale distacco (per non dire di peggio) dall’attività politica. Indica, piuttosto, l’irresponsabilità di un ceto politico che sembra sempre meno interessato allo stato di salute della nostra democrazia in procinto di trasformarsi in “oligarchia pseudo-meritocratica”. Anche in questo caso, l’evidenza fornita dai grafici non è meno chiara. Se, infatti, alla base del sistema democratico sta il principio dell’eguaglianza politica, ovvero la percezione diffusa che i cittadini hanno di poter pesare allo stesso modo sulle deliberazioni delle assemblee elettive, il fatto che, persino nei momenti cruciali della vita di un paese (vedi elezioni politiche dello scorso 25 settembre) circa il 36 % del corpo elettorale (con punte del 45 % in alcune regioni) non si rechi al voto dovrebbe rappresentare un trauma di cui, ahinoi, non si trova traccia significativa e/o sufficientemente durevole nel confronto all’interno e all’esterno dei maggiori partiti politici italiani, di destra come di sinistra.
In secondo luogo, a nostro avviso, va considerato, quale ulteriore indicatore della progressiva incapacità del sistema politico di fornire un’adeguata ed equa rappresentanza degli orientamenti dei cittadini, l’estrema mobilità degli elettori italiani manifestatasi soprattutto nell’ultimo decennio. Segno evidente delle difficoltà crescenti che molte persone – quasi procedessero per tentativi ed errori – incontrano nell’individuare un partito idoneo a rappresentarne stabilmente gli interessi. In questo caso, tuttavia, il fattore chiave della “crisi” potrebbe essere diverso dalla disuguaglianza e riguardare piuttosto la qualità dell’offerta politica. Il passaggio dal partito di massa a quello pigliatutto e dal partito pigliatutto all’attuale forma personalista-digitale- massmediatica, ha moltiplicato la quantità dell’offerta politica a scapito della qualità cosicchè, attualmente, la maggior parte delle “nuove forze politiche” assomiglia più alle start up aziendali che all’esito di autentici “movimenti culturali”.
Infine, un’ultima considerazione. Poiché di riflessioni critiche come le nostre se ne sentono parecchie, e non da ieri, senza che ne siano sortiti effetti correttivi adeguati, occorre probabilmente cominciare a riflettere su questioni del tipo: “la crisi della democrazia rappresentativa corrisponde alla crisi della democrazia tout court?”; “è possibile individuare altre forme di partecipazione politica capaci di riconciliare i cittadini, attualmente sfiduciati ed emarginati dalla vita pubblica, con il principi della sovranità popolare e di un suffragio universale che, sempre in base ai dati forniti dall’articolo, assomiglia sempre più, di fatto, ad un suffragio di censo?