di Bruno Perazzolo
Nella mitologia greca l’episodio di Edipo e la Sfinge, racconta di una sfida mortale. La Sfinge, un mostro un terzo uomo e due terzi animale, dominava la strada per Tebe. A tutti i passanti sottoponeva il medesimo enigma divorando tutti quelli che non sapevano dare la risposta corretta. Se ora, al posto dei passanti, mettiamo i sistemi democratici, il caso del Qatar-gate può essere assimilato alla riproposizione di un enigma, un’interrogazione alla quale le democrazie non possono più permettersi di fornire risposte elusive.
Nel 1717 la Compagnia del Mississippi, istituita con patente regia in Francia, colonizzò la vallata meridionale del fiume Mississippi. Il direttore della compagnia, certo John Law, allora Direttore anche della Banca Centrale di Francia e Controllore Generale delle Finanze (l’equivalente di un attuale Ministro delle finanze), ebbe buon gioco, in forza delle sue cospicue relazioni, a diffondere notizie favolose sulle ricchezze del Mississippi dove, però, l’unica cosa che abbondava, con tutto il rispetto per la natura, erano gli acquitrini e gli alligatori. A seguito delle fake-news diffuse in Europa, le azioni salirono alle stelle e quando la bolla scoppio, l’intervento della Banca Centrale francese a sostegno dei titoli in caduta libera provocò il dissesto della finanza pubblica e, cosa più grave, l’ira dei creditori che diede la stura alla rivoluzione francese del 1789[1]. Nel 2008, la crisi della Lehman Brothers apre il vaso di pandora dei crediti subprime per fronteggiare la quale le Banche Centrali occidentali dovranno mettere sul tavolo una montagna di danaro. Malgrado questi massicci interventi dei Governi democratici, la recessione dell’economia reale mondiale risulterà superiore a quella della successiva pandemia. Milioni di persone perderanno i loro risparmi, il lavoro e la casa senza che la giustizia sia riuscita a mettere le mani sui responsabili. E’ successo invece il contrario. La maggior parte dei manager delle banche, degli enti di consulenza ecc., ha colto nell’esplosione della bolla l’opportunità per un ulteriore arricchimento in danaro e carriera. Raghuram Rajan, nel libro “Il terzo pilastro”, indica, nella crisi del 2008, uno dei due o tre fattori del successo del nazionalpopulismo negli USA e in Europa[2].
Tornando ora al Qatar-gate e sorvolando sulle questioni maggiormente dibattute che, di norma, si limitano alla descrizione e /o agli effetti dell’inchiesta (l’indignazione, la denuncia del cinismo dei presunti protagonisti, l’indebolimento delle istituzioni europee ecc.), mi preme portare la riflessione su due “fattori causali”. Il primo: la crescita delle disuguaglianze e della concentrazione della ricchezza, quindi del potere. Un fenomeno, questo, compatibile con altre forme di Stato autoritarie che, però, fa a pugni con la democrazia. Il conseguente potere, a sua volta diseguale, delle lobby (in proposito, consiglio il bel film: “Miss. Sloan: giochi di potere” 2016), altro non è che il necessario complemento di un assetto della società sempre più classista dove la sensazione dei singoli cittadini di contare sempre meno nelle deliberazione pubbliche, trova ampi riscontri oggettivi. Al riguardo sembrerebbe che l’originaria “sapienza liberale” – consapevole della minaccia gravante sulle libertà dei cittadini a causa dello sviluppo dei monopoli e degli oligopoli o di uno Stato che concentrasse i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario in un solo organo – sia stata completamente smarrita. Da un lato, ciò che resta della destra liberale pare celebrare le virtù del mercato a prescindere dalle relative forme e regole, dall’altro lato tutta la sinistra, malgrado l’insuccesso del socialismo reale, continua a confidare nell’intervento dello Stato Unitario quale fattore risolutivo di ogni fallimento del mercato. Non sorprende dunque che, oltre il reiterato moralismo, in fatto di concentrazione di ricchezza e potere non si faccia nulla da decenni. Il secondo fattore, probabilmente più importante del primo, è rappresentato dalla cosiddetta “crisi dei valori”, ovvero dalla questione etica già indicata da Enrico Berlinguer nel 1980, come “la questione morale”. Questione che il dirigente comunista riferiva più agli altri partiti che al suo PCI, ma che, evidentemente, interessava, già allora, la sinistra quanto la destra, il centro, l’intera società civile e tutti i cittadini. La denuncia di allora partiva fondamentalmente dall’incipiente cambiamento della forma partito per diffondersi poi nella constatazione della crescente amoralità delle relative classi dirigenti. Sennonché, oggi come ai tempi di Berlinguer, l’analisi si ferma quasi sempre qui senza andare alle radici del fenomeno che, pertanto, al pari della disuguaglianze, malgrado le prediche, non fa che ingrandirsi. A chi fosse interessato ad andare oltre, mi sembra utile proporre l’ascolto del video-podcast di Emanuele Severino “il tramonto dell’episteme”. In questa lezione il filosofo, recentemente scomparso, indica nei maggiori sviluppi della filosofia dell’800 e, segnatamente, in Nietzsche, Gentile e Leopardi, la punta di diamante di un pensiero volto a sancire, con la morte di Dio e/o degli Dei, anche l’impossibilità filosofica della verità. Severino, con logica matematica, dimostra poi come questo assunto, possa trasformare il “delinquente in un innocente”. E, in effetti, ascoltando le interviste dei responsabili della crisi dei subprime del 2008, ampiamente riportate nel docufilm “Inside Job” (vedi anche la recensione su PensarBene), non si ha quasi mai l’impressione di trovarsi di fronte a persone che dimostrino il minimo pentimento o un briciolo di vergogna per le truffe perpetrate ai danni di tanti risparmiatori. In questo senso un altro testo fondamentale, questa volta un dramma scritto per il teatro, espone la stessa dialettica con altrettanto rigore logico. Il testo è quello di Ferdinando Pessoa “Il banchiere anarchico” del 1922. Il banchiere sostiene, con argomenti ineccepibili, di essere lui il vero anarchico mentre quelli che fanno attentati o manifestano per le strade altro non sono che mentecatti. Di più, sostiene di essere diventato un banchiere senza scrupoli, proprio in forza della sua anarchia che, notoriamente, avversando ogni “finzione sociale” abolisce, d’un colpo, Dio, lo Stato e la stessa società lasciando libero sfogo alle disuguaglianze naturali: le uniche che meritino di sopravvivere. Siamo praticamente sicuri che queste “meditazioni letterario – filosofiche” siano rimaste all’interno di alcuni ristretti circoli borghesi per tutto l’800 e nella prima metà del ‘900. Nella seconda metà dello scorso secolo le cose sono però cambiate. I giovani nelle piazze hanno gridato “vietato vietare” ed elogiato acriticamente ogni possibile visione anticapitalistica della società approdando al relativismo antropologico. Negli anni ’80, le nuove élite non hanno fatto altro che applicare la stessa deregulation ai rapporti tra Stato e mercato. Il risultato è stato la massificazione della morte di Dio e degli Dei in base alla quale, ogni questione morale, nei sistemi democratici, è destinata attualmente a scadere nel vano moralismo e, dopo qualche settimana di “confuso confronto di opinioni”, nell’oblio. In conclusione, fatto salvo il diverso significato che “la questione morale” assume se intesa alla luce degli sviluppi della cultura Occidentale degli ultimi due secoli, si può convenire con Enrico Berlinguer riguardo all’urgenza di una risposta.
[1] Yuval Noah Harari, Sapiens – Da animali e Dèi, Bompiani 2011, pp. 401 ss
[2] Raghuram Rajan, Il terzo pilastro: La comunità dimenticata da Stato e mercati, Bocconi Editore 2019, pp. 306 ss.,