di Bruno Perazzolo
La critica lo ha piuttosto snobbato, il pubblico gli ha dato pieni voti anche se non si tratta, almeno sino ad oggi, del “grande pubblico”, bensì, presumo, di un pubblico piuttosto attento e affatto “conservatore”. Per molti versi il film – opera prima scritta e diretta da Alessandro Marzullo, realizzata con scarsissimi mezzi nel circuito del cinema indipendente – richiama i racconti dei fratelli Dardenne: “In fondo al tunnel delle tragedie e/o miserie umane, quasi fosse un miracolo, alla fine una luce si accende sempre”. L’opera di Marzullo però va più nel dettaglio offrendo, intenzionalmente, uno spaccato particolare della generazione Y andando a pescare i protagonisti da contesti urbani periferici. E potrei anche azzardare il termine “contesti urbani popolari” se non fosse che del popolo, nella pellicola, figura solo la povertà e la precarietà delle condizioni materiali, mentre lo spirito risulta completamente assente. Se, dunque, portare nelle sale uno spaccato della generazione dei Millennials era lo scopo della regia, direi che il risultato è stato pienamente centrato in forza di un modo di fare cinema stile mosaico: frammenti che si compongono in una chiara continuità di significato. Gli attori si muovono in contesti estremamente realistici comparendo e scomparendo in continuazione, in sovrapposizione, offrendo frammenti di vite frammentarie senza che il dramma perda mai la sua unità. Sulla scena, i personaggi rappresentati si sforzano di uscire dall’anonimato chi suonando il piano, chi il violino, chi aspirando alla carriera di attore, chi dandosi un tono da manager cosmopolita, ma la realtà li condanna ogni volta. Ogni volta li ricaccia nell’angolo ricolmo di sogni chimerici, di piccole e improvvisate emozioni vagamente gratificanti e di tante frustrazioni che Marzullo riesce a rendere magistralmente attraverso un’immagine notturna e sgualcita. Insomma, si tratta di un film il cui titolo “non credo in nulla”, ne evidenzia bene tutta l’ambizione e il coraggio nel mostrare l’altra faccia della “Morte di Dio”. Quel “lato della morte di Dio” che fa sentire le persone tutt’altro che SuperUomini, tutt’altro che Dei liberi, creativi e padroni di sé stessi. Quel “lato della morte di Dio” che ci rimanda l’immagine di un’umanità che, lungi dal sentirsi emancipata da tutto e finalmente autentica, si sente piuttosto ridotta, nella sua grande maggioranza, alla peggiore schiavitù materiale e, soprattutto, spirituale.
Regia di Alessandro Marzullo con Demetra Bellina, Giuseppe Cristiano, Renata Malinconico, Mario Russo, genere drammatico, Italia, 2023, durata 100 minuti. Il film è appena uscito nelle sale cinematografiche.
Grazie per il consiglio!
Non ho visto il film ma sicuramente lo recupererò.
Mi hanno stupito due frasi in particolare:
“E potrei anche azzardare il termine “contesti urbani popolari” se non fosse che del popolo, nella pellicola, figura solo la povertà e la precarietà delle condizioni materiali, mentre lo spirito risulta completamente assente” sembra che la povertà e la precarietà portino all’annullamento dello spirito. Essendo cresciuto in contesti popolari, anche se non urbani, mi trovo completamente d’accordo e guardo con una certa invidia chi ha la sicurezza e le risorse per coltivare ed affinare lo spirito.
Purtroppo, soprattutto tra i miei coetanei, percepisco una differenza abissale tra chi ha i mezzi e chi no. Dove chi ha i mezzi vive una sorta di “lunga adolescenza”, protetti dalla famiglia e dalla stabilità mentre gli altri sono costretti a crescere subito e abbassare, anche drasticamente, le aspettative lavorative e
quelle sul tenore di vita. Temo ci sia urgente necessità di colmare questa differenza, oggi i mezzi a disposizione dei giovani sono tanti, ITS, Università telematiche e corsi di qualsiasi genere ma sembrano non bastare. Chi ha stabilità e denaro sembra abitare in una “roccaforte sociale” in cui agli “altri” non è permesso entrare.
“Ogni volta li ricaccia nell’angolo ricolmo di sogni chimerici, di piccole e improvvisate emozioni vagamente gratificanti e di tante frustrazioni”
Questa potrebbe essere la continuazione della prima frase. “Ogni volta la “roccaforte sociale” li ricaccia nell’angolo…”. Sembra che in molti siano destinati a sognare un mondo che vedranno solo da lontano o ne avranno dei momentanei assaggi, insufficienti per placare la fame.
Oggi ci viene detto che “fare qualsiasi cosa è possibile, basta impegnarsi”, viene ricordato continuamente sui social network, ovunque ci sono ragazzi giovani, e meno giovani, che sono “arrivati”.
Purtroppo per alcuni è più difficile e chi non ha la stabilità necessaria parte da diverse “caselle” indietro rispetto agli avversari che comodi nelle posizioni superiori possono arrivare prima alla meta lasciando indietro tutti gli altri.
Quindi le aspettative sono uguali per tutti, “spaccare”.
Ma è il punto di partenza che ha profonde differenze e causa enorme disagio tra chi parte svantaggiato, vedono il sogno a portata di mano, ogni giorno, ma non riescono mai a raggiungerlo.
Caro Ivan, i tuoi auspici non possono che essere condivisi e dovrebbero essere vangelo per le democrazie che, dai principi cui tu fai riferimento, negli ultimi decenni, sembrano allontanarsi sempre di più abbandonando il merito (attenzione: merito e meritocrazia sono però cose molto diverse) e disseppellendo le classi sociali dell’800. Se avrai modo di vedere il film, ti chiederei, tuttavia, di focalizzare la tua attenzione anche su un altro aspetto che credo sia il vero cuore del dramma ben introdotto dalla citazione di Zygmunt Bauman: la frammentazione, la precarietà delle vite dei personaggi. Precarietà e frammentazione che non dipendono solo dall’esterno (il lavoro nero, la difficile condizione economica ecc.), ma che, principalmente, provengono dall’anima. Per questo, al titolo “non credo in niente”, già esplicito per conto suo, ho aggiunto il mio incipit “Se Dio è morto, in molti non si sentono troppo bene”. Come sai la “morte di Dio”, intesa in senso lato come il venir meno della percezione di un ordine oltremondano, è concetto nietzschiano che, nel contesto della modernità, forse più di ogni altro, ne chiarisce l’ideologia individualistica portandola alle sue estreme conseguenze: l’uomo atomo si fa esso stesso Dio; l’individuo, proprio perché solo al mondo e completamente emancipato, ora può farsi da sé. Questa filosofia, per circa due secoli o giù di lì (1750 – 1950), ha spopolato nei salotti borghesi e tra intellettuali ed artisti (le vecchie élite) che hanno fatto la storia dello spirito occidentale contemporaneo. A seguito dell’urbanizzazione e, soprattutto, della società dei consumi della seconda metà del ‘900, questo spirito è divenuto di massa e, come dici tu, basta andare sui social, per rendersi conto di quanto questa ideologia abbia impregnato di sé ogni molecola di quello che una volta poteva ancora dirsi popolo. Sennonché le crescenti disparità sociali cui tu fai cenno, stanno cambiando le carte in tavola. Mentre una parte sempre più ristretta della società (le nuove élite manageriali, intellettuali, professionali ecc. cosmopolite) si professa “soddisfatta” figlia della “morte di Dio” e sacerdotessa della postmodernità (essendo confermata in ciò dal successo economico, professionale e dall’appartenenza ad una casta privilegiata), la parte maggioritaria di chi non ce la fa ad “entrare in paradiso”, oltre alla frequente povertà e al fallimento personale, deve paradossalmente fare i conti con la solitudine che quotidianamente si procura ispirandosi alla stessa ideologia narcisista che la condanna.
Credo che il film, mostrando il lato oscuro della “morte di Dio”, metta indirettamente in luce la principale contraddizione che cova sotto le nostre democrazie minandone in profondità le radici. In sintesi, si tratta del progressivo venir meno del sentimento dell’eguaglianza politica, ovvero della pietra angolare su cui poggia la sovranità popolare. Una parte crescente e già maggioritaria di cittadini, oltre a sperimentare la solitudine e una condizione di povertà relativa sempre più grave, si sente anche, e con buona ragione, perfettamente impotente rispetto a tutto quanto le accade intorno. Da qui la “rivolta” verso tutto ciò che odora di establishment, scienziati compresi. Da qui il terreno di cultura ottimale del populismo: dopo il comunismo e il fascismo (lo stato totalitario), la sfida più grande con la quale le società aperte si devono ora confrontare.
Ti ringrazio del commento che mi ha spinto a fare queste, ulteriori, riflessioni.