Tentativo di un ulteriore approfondimento a partire dalle osservazioni critiche di Clelia Dal Lago e di Sara Parola all’articolo “il capitalismo quasi non esiste!”.
L’esagerata premura di sdebitarsi di un obbligo è una forma di ingratitudine.
François de La Rochefoucauld (1613 – 1680)
di Bruno Perazzolo
Mi pare che le osservazioni critiche di Sara e Clelia dipendano dal fatto che, nel mio articolo “il capitalismo quasi non esiste!”, dal tentativo di distinguere i concetti di scambio e di dono e di valore di mercato e valori sociali, sia derivata l’idea che, nella realtà, queste dimensioni si escludano vicendevolmente, ovvero che, in concreto, non possano convivere. Da qui l’approfondimento che propongo.
Il primo luogo la questione dello scambio. Sono d’accordo sul fatto che lo scambio, salvo, forse, nelle forme più primitive e isolate di società, è sempre esistito e, probabilmente, continuerà ad esistere. Non è però l’unico modo – e, in molti casi, per esempio nelle società tradizionali, non è neppure il modo più importante – nel quale si crea valore. Soprattutto ne esiste un altro, IL DONO, che è tipico di quella forma particolare di relazione umana che chiamiamo Comunità. A mio giudizio l’errore che spesso si commette è quello di confondere il dono con lo scambio. È vero che in molte situazioni dono e scambio si mescolano (la famosa “zona grigia – che si incontra in tutte le classificazioni – alla quale, credo, Sara faccia riferimento quando parla di “attività che non massimizzano il profitto”), ma la nostra mente, per capirci qualcosa nei fenomeni che indaga, si sforza sempre di distinguere. Facciamo sempre così e dovremmo farlo anche in questa circostanza anche perché, in effetti, ci sono altrettante situazioni in cui il dono è chiaramente diverso dallo scambio e viceversa. In questa “operazione concettuale”, è bene saperlo, non siamo però favoriti dall’ideologia dominante che tende a considerare il dono una specie di marginale “sotto-scambio” consumistico. Al contrario, un’intera tradizione antropologica, culminante nel classico “Saggio sul dono” di Marcel Mauss (scaricabile in rete gratuitamente cliccando su https://bit.ly/49CpVWf ), ha messo bene in luce di cosa si tratta. In breve, il dono è il modo in cui una comunità rinnova i suoi legami di appartenenza, fiducia e fedeltà sotto l’egida della “legge morale”. In altre parole, mentre nello scambio “individui giuridicamente liberi ed eguali” si relazionano principalmente in base alle “cose” che possiedono e all’interesse egoistico, cosicchè, poi, sono i rapporti tra le “cose” a determinare quelli tra gli individui, nel dono accade il contrario: a dettare i rapporti economici (i rapporti tra le cose) sono prevalentemente le relazioni sociali improntate alla dimensione etico – religiosa di una certa società (K. Marx, F. Tonnies, L. Dumont). Tempo fa feci una recensione ad un film “Belfast” che può aiutare a capire questa differenza. Ora, come mi pare sostenga Clelia, queste due realtà, del dono comunitario e dello scambio dettato dall’interesse delle parti, sono sempre convissute, ma ciò è accaduto, e questo particolare credo non sia affatto secondario, in proporzioni diverse. Se nella società tradizionale prevaleva la logica del dono, nella nostra, attuale, prevale quella dello scambio. Più che scegliere tra l’una o l’altra, si tratta dunque, eventualmente, di andare alla ricerca, in relazione ad un dato contesto, di un accettabile punto di equilibrio.
Altro argomento: quello dei “lavori senza senso”, che concorrono a gonfiare il PIL senza creare alcuna, vera, ricchezza. Mi pare che qui Sara abbia colto perfettamente la questione quasi utilizzando le stesse parole di D. Graeber, l’autore del libro “Bull Shit Jobs (lavori del cavolo)”. L’opera di Graeber meriterebbe di certo una trattazione a parte. Nel mio articolo, la citazione di questo testo è servita a dimostrare, in maniera possibilmente ancora più chiara, come l’ideologia possa fornire una visione parziale della realtà valorizzando, persino in eccesso, il valore prodotto per lo scambio (nel PIL sono, infatti, inclusi i lavori senza senso) e sottacendo ampiamente il valore prodotto per essere donato. Anche in questo caso, però, mi pare utile ribadire che non si tratta di fare una scelta manichea tra scambio e dono, tra mercato e comunità. Va invece ricercato un “buon compromesso” che, almeno per come la vedo io, in questo momento, e in perfetta sintonia con la visione contrattualista dominante, risulta lontano da venire. Un “buon compromesso”, quindi, tutto da costruire, in assenza del quale, la “carenza di dono”, a me pare, stia già minando le basi della nostra convivenza e della fiducia reciproca.
Sono don Luigi, sono d’accordo sulle realta’ dello scambio e del dono e ritengo che sia importante che, agendo, ciascuno abbia chiara la scelta fatta. .Ma, intrapreso il cammino, anche il dono diventa scambio, certo non di valori materiali ma di valori più’ alti che ti arricchiscono umanamente. Quante volte ho sentito dire da volontari impegnati in vari campi: ho ricevuto molto di più’ di quello che ho dato.
Grazie Don Luigi. Anche nelle interviste che abbiamo fatto come PensarBene risulta costantemente questa esperienza dei volontari di ricevere più di quanto danno. Mi piace pensare che avremo modo di affrontare questo tema insieme. L’idea formale (giuridico – economica) che abbiamo noi, occidentali moderni, di dono, credo sia molto singolare e anche contrastante sia con l’esperienza di chi opera nel volontariato, sia con le evidenze documentate dall’antropologia. Secondo il diritto civile il dono è un contratto avente come causa lo spirito di liberalità che, pertanto, non comporta nè, tantomeno, obbliga il donatario ad alcuna controprestazione rivolta al donante. In questo senso il dono, nel nostro linguaggio formale, si oppone allo scambio chiarissimamente.
Sennonchè, ciò che l’esperienza concreta dei volontari e l’antropologia rilevano nel dono sembra contraddire questa opposizione che il linguaggio formale ci impone. Il volontario sente di ricevere qualcosa in cambio e, nel concetto che ne dà l’antropologia, il dono è esattamente l’opposto di quanto afferma il nostro codice civile poiché, colui che riceve un dono, addirittura, dovrà sentirsi in debito e sarà, di fatto, obbligato a restituire qualcosa. Da qui, a mio parere, la confusione che può essere risolta se, al termine dono, viene dato il significato e la centralità di cui esso gode nelle società tradizionali, per non dire di quelle primitive. Concludo, altrimenti faccio un altro articolo. Certo che nel dono di cui parlano i volontari e gli antropologi c’è lo scambio, ma si tratta di comprendere che lo scambio insito nel dono non ha nulla a che spartire con lo scambio che avviene tramite i normali contratti commerciali. Per fare chiarezza potremmo parlare di “scambio di tipo 1” e di “scambio di tipo 2” e, pre cogliere l’abisso che li separa, pensare, ad esempio, ai diversi esiti dei due tipi di scambio. Nel contratto lo “scambio di tipo 1” delle prestazione e/o dei beni scioglie il rapporto tra i contraenti liberandoli reciprocamente, mentre nel dono, lo “scambio di tipo 2” genera o rinnova e rinsalda un legame sociale. Si dovrebbe comprendere da qui come alla “crisi del dono” si accompagni lo scollamento delle relazioni tra le persone e, quindi, dell’intera società / comunità.
Premetto che anche se non sono totalmente d’accordo, è davvero bello leggere articoli che analizzano la realtà in modo così lucido e sincero, quindi grazie.
Dunque, mi sembra che il mio commento sul precedente articolo sia stato leggermente (senza offesa comunque) malinteso. Non intendevo dire che non esiste la dimensione del dono, anzi sono assolutamente d’accordo con la caratterizzazione del dono che viene data da Mauss. L’unica cosa è che non credo che il volontariato faccia propriamente parte della dimensione del dono, ma più di quella dello scambio.
Cara Sara, grazie anche per questa tua risposta al mio articolo incentrato sul tuo precedente commento. Quello che dici è molto interessante. Mi piacerebbe conoscere con quali argomenti sostieni che i volontari non facciano parte dell’universo dono, ma, piuttosto, di quello dello scambio. A questo proposito ti invito a leggere la mia risposta al commento di Don Luigi che trovi qui sopra. Può darsi che questo ulteriore approfondimento chiarisca il nostro rispettivo punto di vista. Un grande abbraccio.
Forse Sara si riferisce ad un certo mondo della cooperazione che usa il termine volontariato in modo improprio e prevede rimborsi spese che in realtà sono stipendi camuffati. Si sta anche diffondendo nel mondo delle imprese un uso strumentale delle donazioni, sotto l’impulso degli esperti di marketing che hanno fiutato l’aria “buonista”. Con effetti paradossali come quelli del caso Ferragni-Balocco che ha svelato l’esistenza di pratiche di influenzamento ambigue, non innocenti, dove la donazione è mossa da interessi venali e il donante si arricchisce di beni e di prestigio, ma non certo sul piano morale.