di Dario Nicoli
Il libro, scritto nel 2015, è il racconto del viaggio che l’autore, Malachy Tallack, intraprende a ventisette anni lungo i territori toccati dal sessantesimo parallelo a nord dell’Equatore, spinto da tre moventi: la curiosità, l’inquietudine e la nostalgia di casa. Malachy, infatti, è nato nelle isole Shetland che si trovano sullo stesso parallelo; a diciassette anni aveva immaginato, e sognato, questo viaggio “partendo da casa e viaggiando in tondo, fino a tornare al punto di partenza e vedere me stesso”. L’urgenza di questo viaggio è stata imposta dalle vicende familiari, in primo luogo dalla separazione dei genitori e successivamente dalla morte del padre in un incidente stradale, un’esperienza che gli ha fatto smarrire la strada su cui si era incamminato, studiare musica all’accademia, lasciandolo “perso e svuotato dal dolore”. Da qui la decisione di compiere ciò che aveva sognato dieci anni prima, alla ricerca di un appiglio per la propria vita, tentando di carpire il segreto del perché le persone scelgono di restare in luoghi i cui abitanti sono messi a dura prova dal clima, dal paesaggio e dall’isolamento. Imparando a capire cosa significa viverci, nella tensione e nell’amore per quei luoghi, Malachy si aspetta di venire a capo della sua inquietudine che l’aveva portato nel frattempo nelle università in Scozia e a Copenaghen, oltre che a Praga per lavoro. Egli si mette in viaggio verso ovest, seguendo il sole e le stagioni, non come un turista ma come uno scopritore che desidera condividere la vita delle popolazioni che incontra, mosso dalla domanda che sorge dall’unica sua certezza: “dove mi trovo?”
Dopo un itinerario nella sua terra, si sposta In Groenlandia dove incontra David Kristoffersen curatore del museo di Nanortalik, una cittadina lontana dal traffico, lambita dalla flora selvatica, dove non vi è confine tra natura e cultura. I groenlandesi sono un popolo fiero della propria identità, e si sentono minacciati dall’imperialismo morale degli stranieri, anche di coloro che, sostenendo i “diritti degli animali”, finiscono per ampliare piuttosto che sanare la distanza tra umanità e natura.
La tappa successiva è il Canada, il paese che più degli altri ha faticato nel comprendere il Nord, un mondo che pur essendo vicino, rimane alla maggioranza dei cittadini ancora sconosciuto. L’autore vuole invece cogliere il contesto reale fatto di grandi spazi e opportunità, come quella che ha portato quarant’anni prima Ib Kristensen e la moglie Lillian ad aprire a Fort Smith una libreria con bar, ed a rimanerci ritenendosi molto fortunati ad aver trovato questa terra dove vivere.
Successivamente va in Alaska dove, accanto alla bellezza ed alla vastità dei luoghi, scopre il paradosso dell’industria del turismo che, con l’intento di offrire escursioni in un mondo “incontaminato”, finisce per provocare una nuova forma di corruzione.
Da qui si sposta in Siberia e successivamente a San Pietroburgo. Nel vastissimo territorio che si estende dagli Urali al Pacifico, oltre a ritrovare i segni del dolore e della morte essendo da più di duecento anni un carcere per milioni di russi, incontra la popolazione degli eveni, che vive dell’allevamento delle renne, e viene stregato dalla penisola della Kamčatka “bella e misteriosa” che “custodiva nel cuore una pace che sembrava aver temporaneamente placato l’inquietudine del mio”. La conoscenza di San Pietroburgo è l’incontro con una città nata dal sogno europeo di Pietro il Grande, ma anche perseguitata da distruzioni. Incendi, inondazioni e soprattutto dalla morte per fame e malattie di oltre un milione di persone provocata dall’assedio dell’esercito nazista durante la Seconda guerra mondiale, quando ancora la città si chiamava Leningrado.
La tappa successiva lo porta in Finlandia, una terra che, pur essendo rimasta per molto tempo sotto il dominio straniero, ha sempre mantenuto una forte identità, plasmata dal paesaggio fatto di foreste, laghi e isole. Ma è nell’arcipelago delle Åland che fa di nuovo l’esperienza del contrasto tra la bellezza dell’ambiente, con una straordinaria abbondanza di alberi («nel Baltico gli alberi non dicono mai di no»), e l’irruzione massiccia di turisti attratti dal buon cibo e dallo shopping esentasse, e che ritornano carichi di sacchetti pieni di alcolici e sigarette. La popolazione locale trae dal flusso turistico gran parte delle risorse che le consente di vivere, ma si tratta di una transazione neutra, in quanto «i turisti portano soldi alle isole, ma non forniscono loro uno scopo».
L’ultima tappa del viaggio di Malachy si svolge in Svezia ed in Norvegia. Si ferma soprattutto ad Uppsala, una città ad un tempo antica e giovane, culla del sapere e della religione, e perciò cuore intellettuale e spirituale della Svezia. Dirigendosi verso la vecchia città lungo il cammino dei pellegrini, egli scopre un turismo di nuovo tipo, quello spirituale, pubblicizzato come «il viaggio più grande e più importante di tutti, quello interiore». Ma non si riconosce nell’appellativo di “pellegrino moderno”, sentendosi infastidito da quello che considera solo sentimentalismo. Di sé dichiara semmai di essere un pellegrino in modo disonesto, in quanto lo compie solo per proteggersi dalla delusione. Emerge qui l’anima scettica dell’autore, quella che gli fa vedere la provvisorietà ed il declino delle credenze e dei simboli, di cui rimangono solo i frammenti ma senza l’insieme. Lasciando solo tanti segreti incompresi. L’unico dato reale è solo la ricerca di “un espediente per mettere ordine, un tentativo di trasformare in calma il caos e in significato la sua assenza». La sua scrittura, nata dal dolore, non fa eccezione.
Al termine del percorso Malachy Tallack torna nella sua casa sulle Shetland, ma vi rimane solo pochi mesi. Lui che aveva compreso che “la voglia di casa e la voglia d’amore sono talmente simili da risultare quasi inscindibili» e che l’identità è legata al legame con la terra che genera il sentimento di appartenenza ad una comunità, in tutto il suo libro parla solo di personaggi incontrati casualmente nei territori visitati; solo di sfuggita accenna ad “una partner che teneva moltissimo a me” e che decide di lasciare dopo un anno. Lo aveva infatti assalito una depressione causata proprio dal viaggio intrapreso, che invece di fornirgli risposte lo ha fatto ripiombare in un profondo smarrimento esistenziale che ne ha bloccato ogni facoltà intellettuale. Decide quindi di trasferirsi nell’Inghilterra del sud dove riprende a scrivere. Ha ritrovato la via di casa proprio nel nomadismo e nella vita metropolitana che aveva tanto aborrito.
Tema complesso quello del viaggio. Questa recensione mi ricorda il film “le 8 montagne”. Pietro le scala tutte in cerca della propria identità che nasce dalla rottura dei rapporti con la propria famiglia e la morte del padre. Anche in questo caso la scrittura diventa lo strumento pressochè necessario a ricostruire il proprio passato, a descrivere il presente e per immaginare il futuro. Grazie Dario