Il significato autentico di perdono e di pace
Dario Nicoli
La gran parte dei commentatori ha presentato l’intervista al cardinal Pizzaballa al Meeting di Rimini riportandone il contenuto più “giornalistico”, quello che definisce le consultazioni in corso come l’ “ultimo treno” prima della catastrofe. Ma ciò che ha detto il patriarca di Gerusalemme e dei Latini va ancora oltre, è ricco di messaggi più importanti, che aiutano a comprendere un momento altamente drammatico, nel quale la volontà di distruzione reciproca tra i contendenti sembra rendere vani gli sforzi di molti stati nel cercare una via di tregua, se non di pacificazione.
Essi riguardano tre questioni, in cosa è possibile sperare? Cosa significa perdonare? Infine, la terza, quella decisiva: cosa si intende per pace ed a cosa occorre che le parti rinuncino per poterla realizzare?
Il tema della speranza è introdotto dal messaggio inviato dal papa: «Mentre soffiano i venti gelidi della guerra è imprescindibile fermarsi e chiedersi: c’è qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare?». Si potrebbe aggiungere che la speranza è preziosa specialmente quando non sembrano esistere più spiragli di luce. Ma mons. Pizzaballa ci ricorda che non può essere ridotta a mera consolazione, mettendoci in guardia dallo «spendere parole di speranza quando non c’è molto di cui sperare». E sembra buttare lì una frase che solo in apparenza può sembrare rassegnazione, ma che possiede una potenza che va ben oltre gli sforzi umani: «Ci è rimasta solo la preghiera». L’appello a Dio è la mossa più concreta ed efficace, e non solo quando tutte le possibilità umane appaiono esaurite, ma sempre, perché gli uomini che si dedicano alle buone cause sono chiamati a spendere per esse tutte le proprie energie, ma la realizzazione del bene, attraverso strade spesso imprevedibili, è a disposizione solo di Dio.
Ciò vale per il perdono, anche questa una parola usata a sproposito e fraintesa con una sorta di magica cancellazione delle cause che hanno provocato i drammi che tutti vediamo, e della grave responsabilità delle parti nel rimuoverle per evitare che continuino a generare il male anche dopo il “bel gesto”. Egli lo dice con estrema chiarezza: «perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza significa giustificare un male: il perdono ha dinamiche che richiedono tempo».
Sono due i macigni che vanno rimossi: l’opzione israeliana per la distruzione dell’avversario, e quindi la preferenza per la guerra permanente che nasconde l’indisponibilità alla soluzione dei due stati, inoltre la dichiarata volontà di Hamas, ma anche dell’Iran suo manovratore, come pure delle altre armate che controlla: Huti, Hezbollah, oltre a quelle irachene, di puntare sulla eliminazione dello Stato di Israele. Un obiettivo che si trova scritto nella costituzione iraniana e risulta palese nello slogan “dal fiume al mare” che molti manifestanti occidentali ripetono, forse senza capir bene ciò che stanno gridando.
Ed eccoci al significato della pace. Un cammino lungo, e coraggioso, che nella cultura della diplomazia inizia dalla tregua, procede con una trattativa per giungere ad un accordo stabile e garantito da tutte le parti in gioco. Ma cosa impedisce, e soprattutto rende possibile questo percorso in terra di Palestina? Mons. Pizzaballa punta il dito sul terribile miscuglio da cui origina l’aggressione del 7 ottobre e la conseguente guerra a Gaza che ha portato ad una «esagerazione dei sentimenti che c’erano già: odio, vendetta sfiducia e incapacità di riconoscere l’esistenza dell’altro».
Egli, che si è speso totalmente per un dialogo tra fedi oramai quasi spento, aggiunge che «il rifiuto dell’altro oggi si respira ovunque» e rappresenta quell’humus, continuamente alimentato nelle proprie popolazioni, specialmente nei bambini, da cui scaturisce una scia crescente di violenza, morte e distruzione.
La pace non è uno slogan o una bandiera da agitare, ma un sacrificio cui sono chiamate tutte le parti in gioco in nome della ragione – le guerre continuamente alimentate dall’odio non finiscono mai e nuocciono a tutti i contendenti. Ma anche in nome del comune riconoscimento negli altri della stessa umanità e del medesimo diritto di esistere e poter vivere secondo la propria cultura ed i propri costumi.
Il compromesso non è sinonimo di debolezza o un espediente tattico per poter riprendere il conflitto quando i tempi saranno più favorevoli, ma una vera e propria virtù politica ed un chiaro segnale di saggezza e lungimiranza.
«Ci è rimasta solo la preghiera». E non è poco.
Andando oltre il dramma palestinese e l’auspicio che i negoziati in corso portino finalmente ad una pace duratura, l’articolo sollecita una importante riflessione su tre parole chiave: pace, perdono e speranza