A proposito del rapporto tra sviluppo economico (creazione di valore) e riforme della Pubblica Amministrazione, della Giustizia e dell’intervento regolativo dello Stato in economia (cosiddette semplificazioni).
“Evviva il marcato – Evviva lo Stato!”, sembra la tipica affermazione keynesiana, ma intende essere qualcosa di diverso. Nel modello keynesiano l’intervento dello Stato è inteso come “rimedio ai fallimenti del marcato”. Anche i testi scolastici, in genere, affrontano il tema dei rapporti Stato – Mercato nella stessa maniera; come se Stato e Mercato potessero esistere separatamente. In altre parole esiste qualcosa che si chiama Mercato che però non è capace, da solo, di fare alcune cose. Ecco, dunque, che interviene lo Stato che rende possibile il funzionamento ottimale del Mercato. In definitiva, questo modo di ragionare ha radici profonde che rimandano, penso, all’opposizione Stato di Natura versus Società Civile. Il problema è che lo Stato di natura non ha nulla a che spartire con il Mercato come lo intendevano gli economisti classici. Allo stesso modo, nulla ha a che spartire con il Mercato l’altra similitudine cui viene spesso associato: quella del Far West. Entrambi, Stato di natura e Far West, sono – all’opposto del Mercato dei classici – condizioni astratte dominate dalla violenza, dalla guerra di tutti contro tutti, dalla prevaricazione sistematica del più forte sul più debole, dall’incertezza generalizzata, dalla rendita e dalla miseria dilagante. Esattamente il contrario dell’immagine che, del “libero scambio”, offre Adam Smith nella sua “Ricchezza delle nazioni”. In altri termini, Stato di Natura e Far West assomigliano molto di più a uno Stato tirannico che non al Mercato dell’economia politica delle origini. Un film che può rendere bene il concetto di Stato di Natura è “Quei bravi ragazzi” di Scorsese. Le dinamiche della criminalità organizzata al proprio interno e in rapporto alla parte di società che controllano rimandano proprio a questo “tipo ideale” di ipotetica condizione umana che precede la formazione della società civile. Idem nei film Western che si risolvono nel tipico racconto della banda che si impossessa del villaggio, sceriffo compreso, “dettando legge” e riducendo in schiavitù le persone poste – anche per “futili motivi” – sotto costante intimidazione e minaccia di morte.
Lungi dall’essere riconducibile allo Stato di Natura, la nozione moderna di Mercato è invece il prodotto del “Contratto Sociale”, di quel Patto Generativo, frutto della pura Ragione, concluso da ciascun Uomo con gli altri Uomini per uscire dalla condizione naturale ed entrare in quella Civile, caratterizzata dalla presenza di due nuove Istituzioni: lo Stato Apparato e il Mercato. Un’analogia può forse chiarire il concetto. Immaginiamo un grande condominio in un’ipotetica condizione originaria, ovvero senza assemblea dei condomini, senza amministratore e senza un regolamento. Per quanto possa essere formato da tanta brava gente, la concentrazione delle persone e la condivisione degli spazi sono destinate a generare, prima o poi, conflitti che, in assenza di un’autorità, potranno facilmente degenerare, rendendo alla fine impossibile ogni forma di convivenza e di scambio. Risultato: un condominio di uomini naturalmente liberi si trasforma in un cumulo di macerie circondato da una brezza sinistra e inquietante. Da qui l’invenzione: un patto fondativo dell’assemblea di condominio, di un amministratore e di un regolamento che ponga entrambi al servizio della libertà dei condomini, imponendo a questi ultimi solo quei limiti strettamente indispensabili al mantenimento della pace e di un equo commercio. Ecco dunque spiegata l’originaria complementarietà tra Stato e Mercato, entrambi legittimati dalla loro capacità di assicurare agli uomini, ORA DIVENUTI CITTADINI RESI EGUALI DAVANTI ALLA LEGGE, se non la LIBERTA’ ASSOLUTA, tutta la libertà che risulta realisticamente compatibile con il mantenimento della pace e lo sviluppo dello scambio.
Ben lontano dall’assomigliare al Far West, il Mercato rappresenta dunque, in conclusione, il necessario complemento dello Stato di diritto, ovvero una sofisticatissima quanto rarissima “istituzione civile”, “storicamente determinata”, senza la quale la democrazia – ridotta alla sola rappresentanza o alla sua variante deliberativa (entrambe attualmente in crisi) non potrebbe, oggi più che mai, stare in piedi neppure per un giorno. La prova? Pensiamo, per un attimo, a quanti se la sentirebbero di scommettere sulla residua solidità del nostra democrazia a partire dalla fiducia che i cittadini ripongono nei partiti e/o nell’attitudine referendaria di concorrere direttamente, magari con una somma di likes, all’indirizzo politico generale del nostro paese? La risposta mi pare facilmente intuibile. Dunque su cosa poggia quel che resta della nostra fragile “fede democratica”? Credo nella semi-consapevolezza del valore supremo della libertà e della partecipazione anche quando queste dovessero risultare, come di fatto accede sempre più frequentemente, incapaci di incidere significativamente sul “destino globale comune”. In altre parole, malgrado tutto, siamo ancora, in qualche maniera, consapevoli dell’umanità che ci viene restituita dal fatto di poter dire il NOSTRO punto di vista critico, di poter fare con qualche amico la NOSTRA startup, senza chiedere permessi o favori e senza correre il rischio di passare per terroristi nemici dell’ordine pubblico e/o persone blasfeme avverse al buon costume.
Ora è esattamente su questa libertà e su questa istanza di partecipazione che si fonda il Mercato come lo intendevano i classici. Sfugge, nel confronto schematicamente depistante tra destra e sinistra, il fatto che i padri fondatori dell’economia politica non pensassero affatto al MERCATO in astratto, al Mercato senza ulteriore attribuzione. Al contrario, essi avevano chiaro il concetto che il Mercato, per essere istituzione di libertà e partecipazione al bene comune, dovesse essere un Mercato Concorrenziale. Penso che qui stia il punto cruciale. Il “luogo” nel quale emerge la pietra angolare del paradigma democratico. La sua fondamentale premessa non sta nel voto, pure certamente importante, ma nella diffusione e nella divisione del potere. Lo si vede in economia come in politica. Ciò che maggiormente minaccia la libertà dei cittadini e la democrazia, ciò di cui i classici avevano orrore e che temevano sopra ogni cosa, è la concentrazione del potere che pertanto deve essere diviso in economia, nell’ottica della sovranità del consumatore tramite il contrasto ai monopoli, come nello Stato Apparato allo scopo di assicurare la sovranità del popolo e le libertà civili dei cittadini: teoria della divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario di Montesquieu.
Se, dunque, lo Stato non può essere concepito come l’esito dei fallimenti del Mercato in una successione logica che vede prima il Mercato e poi lo Stato; se Stato Democratico e Mercato concorrenziale sono coevi, nella pratica come nel pensiero, allora è chiaro che, nella catena del valore, il primo anello è dato proprio dalla qualità di questo rapporto dal quale, soprattutto, dipendono “la vita buona e la vita migliore”.
Prima che la maggior parte delle persone sapesse leggere e scrivere, con molto anticipo sull’Economia Classica di Adam Smith e sull’Economia Civile di Antonio Genovesi, un “meraviglioso manifesto”, precursore del Rinascimento italiano, illustrava già, sublimemente, al Popolo e ai Governanti, questo elementare legale: l’allegoria del Buon Governo e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti 1338 – 1339; un ciclo di affreschi conservati nel Palazzo Pubblico di Siena. Nell’affresco sugli EFFETTI DEL BUON GOVERNO si vede una città ricca, ordinata e ben difesa. Affari e commercio fioriscono generando la “base economica”, il valore aggiunto, su cui poggia il generale benessere. Al centro dell’opera si trovano la Buona Amministrazione e una Saggia Giustizia a significare i due “servizi essenzialmente pubblici” che, insieme alla buona difesa, assicurano al Mercato i fondamentali requisiti dello sviluppo e, all’interno della comunità, la concordia e la solidarietà rappresentata da una corda tenuta in mano da cittadini di diversa condizione socio-economica. Per contro, a rendere ancora più eloquente il messaggio, l’affresco sugli EFFETTI DEL CATTIVO GOVERNO mostra una città devastata, in preda ai nemici e al crimine. I cittadini distruggono ricchezza piuttosto che generarne. La campagna è incolta e l’intera comunità versa nella miseria, nell’incertezza e nel terrore. Alla luce di questa sublime “lectio magistralis”, tanto antica quanto attualissima, si comprende dunque come lo Stato Democratico possa e, forse, debba fare di più per le strategie di sviluppo sostenibili, per contrastare le crisi e assicurare una più equa distribuzione della ricchezza. ALLA BASE DELLA CREAZIONE DEL VALORE, PERÒ, oggi come sempre, stanno una buona amministrazione e una buona giustizia. Proprio quello di cui siamo disperatamente alla ricerca, nel nostro paese, da diversi decenni. Ora sono l’Europa e un debito pubblico al 160% del PIL a chiederci di mettere mano a queste riforme. Il Governo Draghi – venuto finalmente meno il falso tema delle “CONDIZIONALITA’” – promette di realizzarle. Come si sul dire: “Speriamo che sia la volta buona”!