di Daniela Mario
COSA SERVE OGGI ALLA SCUOLA? Problema annoso, quanto ostico, ma nello stesso tempo intrigante, perché ci permette di continuare a ricercare il modo migliore per arricchirci, docenti e studenti.
Ascoltando le interviste degli studenti, a poca distanza dalla conseguita maturità in tempo di Covid, sono rimasta molto colpita dal livello di buon senso e lungimiranza delle loro risposte.
Il fatto che siano riusciti a identificare, in poche frasi, quello che per me rappresenta la base della formazione, è stata l’ennesima conferma di quello che penso da tempo e cioè: per capire cosa è meglio fare a scuola, occorre ascoltare i ragazzi.
Loro, conoscendo meglio di noi i loro bisogni, possono indicarci la strada da seguire, che non significa seguire acriticamente le preferenze dei ragazzi, ma incontrarli nel loro terreno di gioco, per percorrere insieme, non tante stradine isolate, ma la strada principale, dove confluiscono le loro e le nostre scelte.
A noi spetta naturalmente il compito di ragionare su come farlo, come soddisfare il loro bisogno di conoscenza, nonché il bisogno di essere riconosciuti come persone, e non solo come studenti da “istruire” e “valutare” sulla base di una didattica che si muove alternativamente tra questi due poli, spiegazione e valutazione, lasciando del tutto orfana la “relazione”, cioè la condizione che il Covid (nel caso non ci fosse stato sufficientemente chiaro prima) ha decretato essere “l’ingrediente essenziale” dell’insegnamento.
E dunque: quale strada ci indicano gli studenti di oggi?
- Abbiamo visto e sentito che, quando i ragazzi sono messi nelle condizioni di dare il meglio di sé, (per es. quando li si invita ad esprimere il loro punto di vista, come in queste interviste), ovvero quando partecipano a progetti veri, utili…(magari alla comunità, al territorio…) quando usano le tecnologie in modo attivo e costruttivo, si auto-motivano e, diventando più responsabili e propositivi, esercitano la loro autonomia proprio perché sono messi nelle condizioni di farlo.
Al contrario, se sono trattati come scolaretti (interrogazioni, verifiche e talvolta giudizi gratuiti…) fanno gli scolaretti.
Dicono che la scuola dovrebbe: “Insegnare come vivere; insegnare come cavarsela da soli; darci qualcosa che ti rimanga addosso, sentirsi come in una seconda casa, imparare attraverso esperienze nuove, che ti mettano alla prova; insegnare come affrontare l’inaspettato, come risolvere problemi nuovi; la partecipazione attiva ai progetti; avere più contatti con il mondo del lavoro,…”
- Dal punto di vista più didattico, la scuola dovrebbe mettere gli studenti nelle condizioni di raggiungere:
- un modello di apprendimento adeguato ai loro bisogni e alle caratteristiche di ciascuno (che riflettono il loro funzionamento mentale, diverso dal nostro in quanto formatosi interagendo dalla nascita con oggetti digitali);
- offrire obiettivi graduali da raggiungere: ad ogni studente dovrebbe essere data la possibilità di raggiungerli in momenti diversi dell’anno scolastico (si eviterebbe la seccatura dei recuperi da entrambi le parti).
- Penso che non si potrà continuare ancora per molto a somministrare pacchetti di lezioni tradizionali di una o due ore, alternando spiegazioni e verifiche, se non vogliamo allontanarci sempre più dall’universo studentesco. Occorre trovare un compromesso tra la comunicazione analogica e quella digitale.
- Sappiamo da tempo che abbiamo a che fare con una generazione sempre più digitale.
I giovani, ma anche i bambini e i ragazzi, sono dotati di una competenza tecnologica a noi inimmaginabile, abitano mondi paralleli al nostro, parlano tra loro un linguaggio talmente diverso dal nostro da rasentare talvolta l’incomunicabilità. Eppure, abbiamo tenuto fuori dalla scuola questo mondo come se non fosse affar nostro. C’è voluto il Covid per utilizzare la formazione in formato digitale, cioè abbiamo utilizzato strumenti che loro manovrano già dai primi anni di vita, ma li abbiamo per lo più utilizzati per fornire una “lezione tradizionale via web”, anche per 6 ore di seguito. Questo, secondo me, è l’aspetto che ha maggiormente decretato l’inefficacia della DAD sul piano del rendimento, relegandola a una metodologia da abbandonare il prima possibile, mentre…
- Come abbiamo sentito, qualcuno degli intervistati ha detto che la DAD era diventata ormai, “una cosa normale” (nonostante le difficoltà, basta avere le condizioni, gli strumenti… non ho un brutto ricordo di quel periodo), sebbene siano consapevoli di quanto le relazioni con i compagni e la presenza degli insegnanti siano fattori imprescindibili.
- Ci stanno indicando la strada: sarebbe opportuno continuare ad usare le tecnologie anche in presenza, non solo per non rivivere l’improvvisazione già sperimentata, ma proprio perché la scuola ha a disposizione decine di software, piattaforme e anche programmi televisivi per svolgere quelle attività didattiche che consentirebbero ai ragazzi di sperimentare la Rete a scopo formativo (e non solo come passatempo), ma soprattutto perché, davvero, la tecnologia digitale favorirebbe la costruzione autonoma della propria conoscenza, dei propri percorsi di apprendimento, ampliando il loro raggio d’azione (la cosiddetta realtà aumentata) rendendo loro stessi più responsabili, dinamici e partecipativi. Tra docente e allievo si creerebbe un rapporto nuovo, più cooperativo, che favorirebbe l’evoluzione dei processi formativi (per non parlare della facilitazione che ne avrebbero i soggetti svantaggiati).
- È ormai inderogabile l’utilizzazione di metodi di studio e di valutazione dinamici, interattivi, circolari…Per es. vista la buona riuscita delle interviste effettuate, potrebbero essere utilizzate, insieme ad altre esperienze (come la partecipazione e l’organizzazione di eventi culturali, dibattiti, presentazione di materiali in piattaforme, indagini, esperimenti, oltre ai “compiti di realtà” collegati agli insegnamenti) come metodi di insegnamento e di valutazione del percorso personale e generale del gruppo.
Tutto questo renderebbe la scuola un laboratorio di studio e ricerca, di confronto e circolazione di idee, di crescita personale; questo creerebbe quello stato di empatia, quel riconoscersi gli uni negli altri, che genererebbe un clima armonioso di rispetto e fiducia reciproca che porta alla collaborazione sul piano relazionale e alla cooperazione nello studio/lavoro. Qualcuno degli intervistati ha detto “devono capire che non siamo solo degli studenti, che dietro a quello che vedono c’è dell’altro”.
Concordo con quanto Daniela scrive indicando un possibile approfondimento che cercherò di sviluppare in un prossimo, ulteriore contributo a “PensarBene”. Posto che anche questa esperienza dell’Intervista e dell’Esame di Stato dei ragazzi dell’Edith Stein hanno dimostrato, per l’ennesima volta, come sia possibile fare scuola diversamente, la questione da affrontare ora diventa la seguente: come mai l’ampio, condiviso auspicio di una scuola laboratoriale non trova applicazione se non in piccole realtà destinate a non durare e/o comunque a non contaminare l’intero sistema?