A proposito dell’articolo intervista, pubblicato sul giornale web “Italia che Cambia”,  La missione di Michael Plant: “La felicità è una cosa seria. E io la misuro

Foto di Jens Junge da Pixabay

di Bruno Perazzolo

Dall’amica Carla Sabatini, che ringrazio, ricevo il link a questa intervista a Michael Plant che commento volentieri per due motivi. Il primo: l’articolo – intervista di Fabrizio Corgnati, e la breve discussione che ne è seguita all’interno della nostra associazione, mi offre l’occasione per ribadire quelli che, a mio giudizio, sono i due caratteri che maggiormente distinguono l’utilitarismo da un approccio autenticamente liberale. Il secondo: oltre ad essere oggetto degli attuali incontri della nostra associazione, l’opposizione del liberalismo all’utilitarismo rappresenta, per come la vedo io, uno dei temi cruciali della nostra, attuale Ideologia Occidentale.

“De gustibus non est disputandum”, secondo il vocabolario Treccani, è una frase latina NON classica che sta a significare “che i gusti sono soggettivi e ognuno ha diritto ad avere i suoi, per quanto strani possano sembrare ad altri”. È, questo, un motto che si adatta perfettamente all’Utilitarismo (Inghilterra, primi ‘800 sino ai nostri giorni). Cos’è bene? Cos’è male? Ognuno, nei limiti dell’ordine pubblico, non solo, di fatto, la vede a modo suo, ma, persino, ha diritto di vederla come gli pare. Alcuni potrebbero trovare utile o, addirittura, “moralmente obbligatorio” bluffare in affari[1], altri potrebbe scoprire gratificante aiutare le persone in difficoltà. Questione di gusti e fare classifiche sarebbe sbagliato. Ognuno ha le sue preferenze e l’utilitarista le pone tutte sullo stesso piano e ne misura “il piacere” che deriva dal corrispondervi, sempre con lo stesso metro. Sta qui il punto di maggiore condivisione tra liberalismo e utilitarismo. Entrambi rappresentano il tentativo, unico nella storia, di fondare morale e giustizia su principi anteposti alle nozioni di bene e/o di vita buona. Ovvero, entrambi, formulano principi morali di giustizia fondativi di Istituzioni Sociali (Carta Costituzionale) all’interno delle quali sia riconosciuta agli individui la possibilità di inseguire, ciascuno, il proprio “SOGNO PRIVATO DI VITA BUONA”.

Andando, però, oltre la condivisione di questo fondamentale principio dell’Occidente e della Modernità, tra Utilitarismo e Liberalismo iniziano i guai. Almeno due differenze cruciali dividono i “due programmi di ricerca” che promettono di assicurare il massimo della felicità ASSOLUTA nel caso dell’Utilitarismo, RELATIVA nel caso del Liberalismo.

Prima di passare alle note critiche, conviene dire che l’utilitarismo gode di una grande attrattiva principalmente per via della sua semplicità. Chi non sarebbe d’accordo sul fatto che occorra “evitare il dolore e incrementare il piacere e/o la felicità”? Specialmente in una società individualista e dominata dall’economia come la nostra, un’affermazione del genere ha il sapore di una classica “catalanata[2] “è meglio avere il marito ricco, bello e intelligente, piuttosto che povero, brutto e stupido”. Una “catalanata” che, però, malgrado tutto, mantiene per intero il fascino dell’immediata evidenza empirica. Nell’articolo intervista di Fabrizio Corgnati, del 2 febbraio ’24, Michael Plant parte da questa evidenza e dalla confessione della sua entusiastica adesione all’utilitarismo, per sviluppare una serie di considerazioni del tutto condivisibili. Per esempio, quella secondo la quale “ci sono cose che i soldi non possono comprare”, ma che incidono grandemente sulla felicità umana tipo l’essere amati, fare un lavoro che ti piace ecc. Nel suo, “dopo la virtù”, 1981, Alasdair MacIntyre, distingue i valori interni dai valori esterni ad una pratica, per esempio, il restauro di mobili. I valori interni, nel caso specifico, potranno essere la passione per il dettaglio, la tradizione, l’arte di riportare in vita oggetti del passato ecc. I valori esterni sono il reddito, lo status del restauratore ecc. Secondo MacIntyre, il restauratore che mirasse ai soli valori esterni si perderebbe un bel po’ di felicità se, al solo scopo di fare più soldi, rinunciasse alla sua “vocazione” per il restauro accettando di lavorare, per esempio, allo sportello di una banca. In altre parole, come dice bene Plant, i soldi aiutano, ma non sono tutto e, raddoppiare il proprio reddito o il PIL di un intero paese, non significa affatto raddoppiarne la felicità. Idem per quando concerne l’offerta di lavoro. È noto da tempo che – contrariamente a quanto sostiene la teoria economica classica, secondo la quale se aumenta il salario la gente è sempre disposta a cedere più ore di lavoro – oltre una certa soglia, l’aumento del salario determina una riduzione dell’offerta di lavoro. Il motivo dell’apparente paradosso è semplice: se porto a casa 100.000,00 € l’anno, l’aumento della paga oraria potrà facilmente indurmi a preferire il tempo che passo con la mia famiglia o con gli amici o in palestra. Morale: essendo soddisfatto del mio attuale reddito, approfitto dell’aumento della paga oraria per passare meno tempo in ufficio. Da ultimo, come non concordare con Plant sul fatto che il “Decisore Pubblico[3]” dovrebbe tener conto di questi fatti nel momento in cui compie determinate scelte destinate ad influire sui comportamenti dei cittadini. Dunque, tutto bene? Devo confessare che, dopo aver letto l’articolo di Corgnati, sono rimasto perplesso. Tutto condivisibile, ma qualcosa non tornava. Dopo qualche giorno, ho capito cosa non tornava. Era l’entusiasmo di Plant. A non tornare era l’affermazione, “sottesa e acritica”, di un legame necessario tra i fatti descritti e l’utilitarismo quasi che, chi non dovesse riconoscersi in questa dottrina, propendesse per una vita di sofferenza e/o masochistiche contrizioni. In altre parole, ho capito che potevo essere d’accordo con quanto sostenuto da Plant senza, per questo, dovermi ricredere su quelli che, a mio giudizio, restano i punti deboli dell’utilitarismo.

Credo sia stato Immanuel Kant il filosofo liberale (Germania, 1724 – 1804) che, più di ogni altro, ha negato le ragioni dell’utilitarismo nella maniera più radicale. Kant vedeva, nella ricerca illimitata del piacere come fine ultimo dell’agire umano, nient’altro che una “forma di intossicazione”. L’individuo, al termine di questa ricerca, anziché ritrovarsi padrone di sé stesso, si sarebbe reso schiavo dei propri bisogni materiali. Insomma, pressappoco come accade a chi, inseguendo il consumo compulsivo propinato dal marketing, anziché saziarsi, si scopre sempre più affamato. Si scopre, cioè, secondo Kant, in una condizione esattamente contraria a quella dell’individuo capace di porre al centro della propria condotta la ragione e, quindi, non la legge mondana “eteronoma”, che s’impone dal di fuori, ma la legge morale che viene da dentro, e che corrisponde all’agire autenticamente “autonomo”, libero e volontario: alla vera dignità umana. Da questo argomento Kant ne deriva un altro ancora più forte. Se la dignità umana coincide con l’attitudine dell’uomo a stabilire la propria legge indipendentemente dalle convenzioni sociali (tradizione) e dalle sue stesse passioni (interessi, bisogni, desideri ecc.), ne consegue che nessun individuo, essendo fine a se stesso, può diventare strumento del volere altrui o della società o dello stato o della maggioranza dei cittadini anche qualora, dalla negazione della libertà di un solo uomo, dovesse derivare un aumento della felicità collettiva. È, questo, il tipo di ragionamento che sta alla radice dei Diritti Inviolabili e che si trova in tutte le Costituzioni e Carte Internazionali ispirate ai valori liberali e democratici. Quegli stessi Diritti Inviolabili dell’Individuo che Jeremy Bentham (Londra, 1748 – 1832) considerava delle vere e proprie stupidaggini. Quegli stessi Diritti Inviolabili che ogni governo autoritario e certo capitalismo maturo, liberista e globale, considerano come “lacci e lacciuoli” insopportabili.

Nella breve discussione che è seguita alla lettura dell’articolo di Corgnati, mi sono allargato un po’. Ho sostenuto che tutte le società vitali hanno sempre riconosciuto, e tutt’ora riconoscono, LIMITI analoghi alla facoltà degli uomini, come singoli o come maggioranza, di subordinare ai propri desideri contingenti, alla convenienza del momento e alla ricerca del piacere, tutti gli ambiti del proprio agire. Per l’uomo primitivo IL LIMITE era dato dal cosmo, per Kant dalla dignità umana. In termini generali, IL LIMITE viene da ciò che gli uomini, di volta in volta, riconoscono come sacro, come non disponibile ovvero, per usare un termine forte anche se fuori moda, da ciò che gli uomini riconoscono come tabù. L’utilitarismo nega la necessità del LIMITE, il liberalismo – come dice bene Benigni nella seconda metà del video di commento all’articolo 1 comma 2 della nostra Costituzione – no. E, questa, non mi sembra una differenza di poco conto.


[1] la moralità del Bluff nel Business è stata sostenuta da A. Carr, economista americano di fama che, nel 1968, pubblicò, nella prestigiosa rivista “Harvard Business Review”, l’articolo, divenuto da allora la Bibbia della finanza, “Is Business Bluffing Ethical?

[2] le “catalanate” sono le affermazione banali del personaggio, interpretato da Massimo Catalano (1936 – 2013), nella trasmissione comico – satirica, Condotta da Renzo Arbore, “QUELLI DELLA NOTTE” 1985

[3] Stato, Amministrazione Pubblica in generale.

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6 commenti

  1. Credo che i diversi “pensatori” cui si riferisce Bruno nel suo post abbiano concezioni differenti del “piacere”. Per esempio, pensare che la ricerca del piacere porti l’individuo a essere schiavo dei propri bisogni materiali non tiene conto di altri tipi di piacere, che conducono a risultati completamente differenti: penso ad esempio a chi sceglie un lavoro che sia soddisfacente dal punto di vista dell’autorealizzazione (come è stato per me l’insegnamento, che ho svolto con grande passione, partecipazione e impegno, con apprezzamento da parte degli studenti e delle loro famiglie), a chi trae piacere nell’aiutare gli altri (avevo un’alunna che ne aveva fatto lo scopo della sua vita), a chi crea opere d’arte spinto da un bisogno interiore e dona all’umanità piccoli e grandi capolavori che ne arricchiscono l’anima. Credo che sia questo tipo di piacere che renda veramente felici.

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    1. Author

      Come ho scritto, è però proprio questa differenza tra piaceri che gli utilitaristi negano. Naturalmente ciascuno di noi è libero di considerare un piacere “più sano” di altri piaceri. Ma questa, per gli utilitaristi, è una questione privata. Dal punto di vista sociale gli utilitaristi non stabiliscono alcuna gerarchia tra che trova piacere nell’alcool e chi lo trova nell’aiutare gli altri e, proprio per questa ragione, le rispettive utilità si possono sommare aritmeticamente stabilendo l’utilità collettiva. Insomma, se si stabilisce una classifica tra i piaceri che si pensa debba avere una qualche valenza collettiva, ci si avvicina all’etica della virtù di Aristotele e quindi all’idea di vita buona intesa come fatto sociale condiviso e non come scelta puramente privata. J. S. Mill, in maniera alquanto contraddittoria, fa un’operazione del genere quando, dopo essersi dichiarato utilitarista, parla di bisogni e piaceri superiori e inferiori. Ma proprio per questo Mill è generalmente considerato un utilitarista borderline.

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  2. Secondo me il punto non è che l’utilitarismo non ammette una gerarchia tra i vari piaceri (e quindi tra i vari beni). Questa in ogni caso non può essere fatta se non fondandosi su un criterio che sarebbe arbitrario in quanto scelto da noi uomini (e oltretutto solo da alcuni).
    Il punto invece che distingue l’utilitarismo dal liberalismo è che l’utilitarismo mira a ottenere un piacere quantitativamente al massimo e per fare ciò ammette l’utilizzo di qualsiasi mezzo, anche di mezzi spiacevoli per la stessa persona che li usa, o che causano danno agli altri. Ad esempio: il fatto non è gradire il bluff in affari -esso infatti può benissimo non piacere a chi lo compie – il fatto è che il bluff viene fatto lo stesso perché è ritenuto necessario in quanto è un *mezzo utile* per raggiungere il massimo del piacere (che in questo caso sarebbe la ricchezza in quanto permette di soddisfare molti desideri).
    Dunque si vede che nella visione utilitarista l’utile non corrisponde al piacere (né al bene se bene è ciò che piace), ma è solo un mezzo.
    Il problema dell’utilitarismo è che puntando alla quantità massima di piacere, si finisce per imbrigliarsi sempre di più in mezzi spiacevoli o che hanno conseguenze e implicazioni spiacevoli, e questo può portare sì a ottenere il massimo di quel piacere che si ha stabilito per sé (che sia la ricchezza, la fama o altro), ma conduce anche a dover sopportare ogni giorno molti compromessi negativi che annullano il piacere conseguito, e quindi alla fine la felicità complessiva è molto bassa. Infatti bisogna considerare che non si vive solo nel momento del piacere, ma in ogni momento della vita. È come l’esempio di quello a cui piace restaurare i mobili ma accetta come più “proficuo” fare l’impiegato in banca.
    Ecco che quindi uno Stato utilitarista può rendere i cittadini infelici. Ma questo, secondo me, non è detto per forza. Dipende dall’obiettivo che si pone lo Stato, ovvero dipende da quale tipo di massimo piacere intende raggiungere. Se questo corrispondesse alla massima libertà di esercitare i propri diritti, allora questo Stato utilitarista coinciderebbe con uno Stato liberalista. Tuttavia credo che sia impossibile perché scegliere di ottenere il massimo in qualche cosa, implica porre un criterio, un vincolo (cioè si ha bisogno di mezzi) e quindi la libertà non può essere al massimo.

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    1. Cioè, forse non mi sono spiegata bene, il punto critico è che l’utilitarismo legittima, anzi, fa apparire come necessaria, la sopportazione di cose spiacevoli in quanto mezzi utili per raggiungere la quantità massima di un certo piacere.

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      1. E quindi la differenza è che il liberalismo non legittima il fare qualsiasi cosa solo perché è un mezzo utile, ma pone dei limiti -come giustamente è stato detto- dice che c’è qualcosa di “sacro” che non può essere violato con la scusa di arrivare a qualcosa di più grande.
        Forse è un questo senso che volevi dire che si fanno delle gerarchie?

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  3. *Continuazione dal mio ultimo commento* (scusate se scrivo commenti staccati ma il mio è un ragionamento che si completa man mano che ci penso)
    Certamente per trovare qualcosa di sacro inviolabile, bisogna porre un criterio arbitrario; ma di criteri se ne possono trovare tanti e alla fine ogni tipo di liberalismo giunge a trovare dei punti sacri diversi.
    E anche l’utilitarismo può porre dei criteri -secondo me- e quindi fa una gerarchia, quando stabilisce qual è il tipo di bene che vuole massimizzare.
    Ma la differenza tra liberalismo e utilitarismo non sta nel trovare o no un criterio per fare gerarchie di beni e piaceri.
    La differenza sta nell’ ammettere o no “l’ arrivare a un certo fine” come giustificazione/legittimazione di un certo mezzo.
    Il bello del liberalismo è che secondo me non serve per forza porre un criterio esterno, per avere la non ammissione del fine a giustificazione di un mezzo. Ma ogni qualvolta che una cosa è talmente disgustosa, allora si ha il diritto di non sopportarla in vista di un fine, si ha il diritto di dire che non è giustificabile. E questo varia da persona a persona, di momento in momento, e questo significa secondo me riconoscere la dignità umana, cioè -come diceva Kant- riconoscere che ognuno ha in sé una ragione morale regolatrice indipendente dalla “legge mondana eteronoma” e indipendente dalle proprie passioni/bisogni.

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