Una provocazione? Certo! Ma non troppo.
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di Bruno Perazzolo
Esistono due modi di intendere il termine “Ideologia”. Uno, dispregiativo, secondo il quale l’ideologia è la “falsa coscienza di una società”. Una specie di “bella bugia” che ci raccontiamo volentieri per continuare, sotto sotto, a “fare gli affari nostri”. L’altro, invece, più nobile, vede nell’ideologia un fattore fondamentale della convivenza umana, il modo nel quale la società interpreta sé stessa attribuendo un senso che gerarchizza cose ed eventi che, diversamente, sembrerebbero solo “disordinato rumore”. Nel primo caso, l’ideologia tende ad essere concepita come una sovrastruttura più o meno ininfluente se non fosse che, nascondendoci la realtà, contribuisce a mantenere le cose come stanno. Nel secondo caso, invece, l’ideologia diventa il collante fondamentale di un paese; lo spirito che tiene unito un popolo e, persino, un’intera civiltà. Sennonchè, anche prendendo per buona la versione ottimistica, non bisognerebbe mai dimenticare che un conto è l’ideologia (la mappa senza la quale non andiamo da nessuna parte), un altro conto è la realtà (il territorio).
Per quanto alcuni, pensando di essersi “fatti da soli”, fatichino ad ammetterlo, siamo tutti figli di un’ideologia che, mettendo in luce certi aspetti della nostra vita, fatalmente ne mette in ombra altri. In particolare, la nostra, occidentale e moderna, facendo emergere l’individuo, ha messo in ombra, come direbbe Giorgio Gaber, “gli altri dei quali, ciascuno di noi, è fatto”. Caso unico nella storia dell’umanità, con la nostra civiltà, l’individuo, che sino ad allora era rimasto universalmente confinato nella profana “cura del proprio interesse”, è transitato nel Panteon degli Dei, diventando l’atomo, indipendente e perfettamente padrone di sé, a partire dal quale tutto viene costruito senza che nulla gli preesista. Da qui i riflettori puntati sull’Istituzione che, da allora, è divenuta la vera pietra angolare della nostra coscienza collettiva: IL CONTRATTO. Ovvero lo scambio fondativo del mercato e, anche, dello Stato Liberal – Democratico (non per nulla la maggiore corrente del pensiero liberale si chiama “contrattualismo”) al quale paghiamo le tasse per avere dei servizi, pressappoco come facciamo con il panettiere. In ultima analisi, il capitalismo altro non è che l’essenza della nostra ideologia secondo la quale uomini naturalmente, egualmente autonomi e sovrani di sé stessi, si relazionano con i propri simili cercando di ottimizzare il proprio vantaggio e, accumulando ricchezza, cercando anche di comandare il lavoro altrui.
Questo per quanto riguarda l’ideologia. La realtà, però, come sempre, contiene molto di più. Per esempio, contiene IL VOLONTARIATO (LA CITTADINANZA ATTIVA). Un termine che, giustamente, a molti non piace per la sua “subdola ambiguità”. In sé e per sé la parola comprende diversi significati, per la maggior parte positivi. Nel contesto dell’”ideologia contrattualista”, il termine assume, però, una declinazione che può risultare sgradevole. Mentre Stato e Mercato appaiono come “la dura realtà che si impone a tutti”, il volontariato risulta una sorta di “DI PIÙ”, qualcosa che ha a che fare con il “libero arbitrio” della persona e/o con il folclore locale, piuttosto che l’evidenza di un bisogno essenziale. Per carità, tutti pensiamo bene dei volontari, soprattutto quando le casse dell’Ente Pubblico “piangono”, però, in ultima analisi, la maggior parte di noi pensa anche che non siano veramente indispensabili. Sono proprio queste considerazioni, che si leggono spesso negli occhi di chi tesse le lodi del volontario, che “suonano male” ai volontari. Questa mia riflessione potrebbe sembrare del tutto soggettiva. Una “grande evidenza”, però, viene in mio soccorso: il modo in cui, di norma, trattiamo il PIL (Prodotto Interno Lordo).
Certo, nelle accademie o nei “salotti buoni”, si sa che il PIL non è un buon indicatore dello stato dell’economia di un paese e, ancor meno, del benessere della gente. Tuttavia, il senso comune, quando vede il PIL crescere, intravvede ogni sorta di “benedizione”. Eppure, mentre nel valore del PIL entra un ponte da rifare perché costruito male (e se lo si fa di nuovo male, per doverci poi nuovamente tornare sopra, il PIL diventerà ancora più grande), l’attività della pubblica amministrazione o della scuola dedicata alla redazione di moduli e formulari che nessuno consulterà mai, le telefonate di marketing che ci ossessionano ad ogni ora della giornata ecc., il lavoro di un volontario che tiene aperto un museo, che accompagna una persona anziana all’ospedale, che allena la squadra juniores di un piccolo paese o che dona il proprio sangue, al PIL, “non fa proprio un baffo”. Quella che potrei chiamare “la discriminazione del volontario” la si tocca poi con mano quando si considera che il medesimo lavoro, per esempio la pulizia di un parco pubblico, se svolta dai netturbini è PIL, se svolta gratuitamente da un gruppo di cittadini residenti è, se va bene, “senso civico” del quale il PIL, di nuovo, non si occupa affatto.
Da circa un anno, la nostra associazione sta indagando il fenomeno del volontariato (o, altrimenti detto, della cittadinanza attiva) nel contesto dell’ipotesi neocomunitaria e la scoperta è stata quella di portare alla luce, accanto all’economia del PIL, un’economia incentrata sul dono e la cura tanto grande e, spesso, in via di accrescimento, quanto sottratta alla comune consapevolezza malgrado la sua essenzialità, ovvero, malgrado il suo corrispondere ai bisogni più elementari delle persone. I casi li ho appena citati e sono risaputi, ma quel che ancora non si comprende appieno è come, senza questi contributi alle nostre comunità, non solo molte famiglie ne patirebbero grandemente, ma anche le amministrazioni locali e molte piccole imprese potrebbero rapidamente declinare trasformando il territorio in una specie di “dormitorio anonimo”. Se, poi, a questa economia, disconosciuta dalla “visione contrattualista”, si aggiungesse “la dedizione non retribuita” che molti lavoratori conferiscono nelle proprie aziende, pubbliche o private, mettendoci quel “di più di impegno” tipico “dell’impiegata che ti risolve il problema allo sportello senza esserne obbligata”, se, alla fine, anche si considerasse la miriade di piccole e medie imprese condotte in modo non capitalistico quali cooperative, aziende familiari tradizionali ecc., allora sì, pare proprio che potremmo ipotizzare che, verosimilmente “il capitalismo quasi non esisterebbe se non fosse per gli occhiali che l’ideologia del valore generato unicamente dallo scambio ci mette sul naso”. Nel suo libro “Bullshit Jobs”, l’antropologo David Graeber sostiene una tesi ancora più provocatoria della mia. Dopo aver distinto il “valore economico di marcato” dai “valori sociali”, Graeber – sia pure in via approssimativa, stante che la realtà mescola sempre ciò che noi tendiamo a distinguere con chiarezza – sostiene esserci una proporzione inversa tra l’utilità collettiva di un lavoro e la sua remunerazione. In particolare, secondo Graeber, spesso accade che i lavori più pagati siano anche quelli maggiormente senza senso o del tutto dannosi per l’interesse generale. Lavori che, assai frequentemente, generano, in chi li svolge, un profondo senso di smarrimento misto a solitudine, rabbia e infelicità (es. molte forme di marketing o di “finanza aggressiva” ecc.). Viceversa, sono i lavori che, di norma, maggiormente motivano le persone (vedi, appunto, tutti i casi di cittadinanza attiva / volontariato) ad essere meno riconosciuti e/o sostenuti in termini monetari. Io penso che i concetti che abbiamo provato ad approfondire, tramite il lavoro di PensarBene, in questo ultimo anno e mezzo circa, possono aiutarci a comprendere questo apparente paradosso. La vita comunitaria dell’uomo, nelle sue molteplici forme dettate dalla parentela o dall’amicizia o dall’esercizio del potere politico, è enormemente più antica del mercato. Idem per quanto concerne i valori sociali rispetto al valore economico che si determina nello scambio. In “illo tempore” il mercato compare nello spazio periferico che delimita il luogo abitato da una tribù o da altre forme sociali primitive e, le attività che strutturano un tale spazio, oltre ad essere considerate del tutto marginali, sono riservate a stranieri oppure alle classi sociali “più vili”. L’economia che allora contava era quella che aveva a che fare con la logica comunitaria secondo la quale i rapporti tra le persone non discendono dalla ricchezza di ciascuno, ma dai “valori sociali”, ovvero, dalla morale in base alla quale il comportamento di un uomo verso un altro non è determinato dall’interesse, ma dal dovere, dal rispetto e dalla gratuità reciproca. Sennonchè, piano piano, il mercato è avanzato verso il centro delle città ed è nell’occidente moderno che, alla fine, ha conquistato le piazze scacciando la vita comunitaria nell’oscurità della periferia. Non dovrebbe dunque sorprendere che attualmente, nei sistemi democratico liberali, siano proprio i lavori unicamente motivati dall’interesse egoistico e spesso carichi di esternalità negative, ad essere i più pagati. La vera domanda che, anche alla luce delle inchieste fatte dalla nostra associazione PensarBene, mi pare opportuno porre non riguarda, pertanto, lo scandalo “dei lavori più utili malpagati”, quanto, piuttosto, la possibilità che il mercato e lo stesso Stato Democratico possano sopravvivere nel cuore e nella mente dei cittadini, continuando a sottacere il bisogno di comunità, di sentirsi parte piuttosto che atomi, che serpeggia, con forza sempre maggiore, soprattutto negli strati medio bassi e, oramai, largamente più numerosi delle nostre società.
Condivido pienamente tutto. Per quanto riguarda l’ideologia di secondo tipo, era qualcosa che percepivo da tempo, ma che non ero mai riuscita a esplicitare bene come tu hai fatto.
Sembrerebbe dunque che l’ideologia capitalista ci faccia categorizzare la realtà in PIL/ non-PIL , il che porta all’ impossibilità di misurare il valore completo dei lavori. Emblematico l’esempio del ponte: più si fanno girare i soldi nei vari passaggi per costruirlo più e più volte, più il PIL salirà, ma il vero valore del ponte è la sua qualità e l’utilità che ne potrà trarre la comunità. Un ponte dove non c’è niente, nessuno avrà bisogno di usarlo, ma forse farà alzare molto il PIL se si fanno girare bene i finanziamenti. Ecco, mi sembra che molti lavori oggi vadano in questa direzione: si fanno cose che non portano benessere né a chi le fa, né a chi al quale sono destinate. Il loro scopo è mantenere la struttura, aggiungere nuovi passaggi in modo che si possano inserire nuovi lavoratori e quindi nuovi giri di capitale. L’esempio della compilazione di moduli della pubblica amministrazione è perfetto perché non solo non porta beneficio a nessuno, ma è anche frustrante per il lavoratore, e, a scuola, fa anche perdere molto tempo. Il risultato è, secondo me, un “lavorare per lavorare”. Il lavoro con lo scopo di mantenere la struttura lavorativa.
Il volontariato invece non fa crescere il PIL, ma porta benessere -così come molti dei lavori poco pagati. Qui però c’è un problema perché penso che il contrattualismo sia ineliminabile, cioè che la società umana non possa sopravvivere senza gli scambi. Solo che forse bisognerebbe non puntare a massimizzare il profitto.
Da dove proviene dunque il beneficio recato dal volontariato, dal fatto di essere una cosa volontaria? (Ma allora dovremmo negare l’utilità a tutti i lavori, anche quelli poco pagati a cui si accennava) No, io penso piuttosto che il beneficio venga dal fatto di essere una forma di scambio a profitto non massimizzato: un profitto che va a beneficio di tutti e non al massimo-accumulo di un solo individuo. Certo poi il volontariato oltre a essere una forma di scambio di questo tipo, è anche uno scambio a profitto indiretto, nel senso che il “profitto” ti arriva non dalla persona a cui hai fatto il beneficio, ma arriva come benessere generale della comunità, e anche sotto forma di emozione come soddisfazione, gioia… Ma è comunque una forma di scambio.
Ecco io penso che il volontariato sia un modello a cui guardare per convertire il capitalismo in scambi a profitto non massimizzato, i quali sono la vera soluzione. Scambi che diano valore non a quanti giri di soldi si fanno, ma al benessere collettivo, dunque non all’utilitarismo, ma, ai valori morali, all’ essere-comunità.
(P.s. ti devo segnalare che alla fine l’articolo è tagliato alla parola “strati”)
Grazie Sara di questo lungo e meditato commento che solleva ulteriori questioni che nel mio articolo sono toccate solo marginalmente oppure del tutto trascurate. Le tue riflessioni meriterebbero di essere approfondite in un percorso dedicato di alcuni mesi. Magari, chissà, nei prossimi incontri di PensarBene, potremmo fare proprio questa scelta. In ogni caso, il nostro percorso associativo, sia pure in forma indiretta, ha sempre avuto che fare con le considerazioni che hai svolto e sulle quali, ora, proverò anch’io, con un ulteriore articolo al quale ti rimando, ad abbozzare qualcosa di aggiuntivo sperando che sia di arricchimento piuttosto che portare ulteriore confusione su temi che sono, già per conto loro, molto complessi.
Concordo su tutto fuorchè sulla conclusione. Non mi risulta che sia esistito un passato privo dell’istinto dell’uomo di dominare i suoi simili e di approfittare dei vantaggi della sua condizione o della sua casta.E’ vero che il capitalismo ha rafforzato l’individualità a scapito della collettività ma è altrttanto vero che in tempi di aspettative crescenti si rafforza l’individuo mentre in quelli di aspettative decrescenti la comunità. Forse ora, che il capitalismo non riesce a mantenere le promesse di crescita e benessere, si possono creare le condizioni per lo sviluppo di un nuovo senso di comunità. Forse.
Grazie Clelia della nota critica, per alcuni aspetti riconducibile alle osservazioni di Sara. Proverò a rispondere ad entrambe sperando di fornire, anche grazie alle vostre considerazioni, qualche elemento di chiarezza in più.