Mai come in questi mesi ci siamo resi conto quanto sia importante, almeno nei contesti scolastici (ma non solo) chiederci cosa vale la pena insegnare/imparare, non avendo più tutto il tempo, lo spazio, gli strumenti e le relazioni interpersonali che avevamo a disposizione prima di essere colpiti dalla Covid-sciagura.
Siamo tornati a gran voce a parlare di saperi essenziali, quelli che dovrebbero orientare la rimodulazione della programmazione. Come identificarli? La prima domanda che dovremo porci: essenziali per chi ? Per i docenti che insegnano o per gli allievi che imparano? E la seconda domanda: essenziali a quale scopo?
Rispetto alla prima domanda penso sia fondamentale spostare il focus su chi apprende, e non è certo una novità! Da anni le riforme scolastiche hanno posto “al centro” il bambino o lo studente, ma l’attuazione di questo principio quanto e come è stato attuato nella quotidianità scolastica? Quanto abbiamo privilegiato il punto di vista, i bisogni, le risorse, le disposizioni di chi apprende, rispetto ai bisogni di chi insegna? Quanto le scelte degli insegnanti sono state guidate dal beneficio che ne ricavava l’allievo rispetto all’utilità propria o dell’ organizzazione scolastica (dalla scelta dell’orario alla ripartizione dei periodi scolastici)?
Chiediamoci dunque: Cosa è essenziale sapere per un giovane oggi, che oltre alla precarietà e incertezza del futuro (che ci accompagna ormai da anni) deve anche difendersi dai rischi pandemici e ambientali in grado di trasformare in un batter d’ali gli stili di vita personali e sociali?
La dolorosa incognita che stiamo attraversando ci indica che le risposte a tali domande non sono più rinviabili e che è davvero necessario mettersi “al posto” dei ragazzi che abbiamo l’onore e la responsabilità di “formare”. Siamo in molti ad essere d’accordo che non basta ridurre o sfoltire il numero degli obiettivi di apprendimento, o i contenuti disciplinari, per rendere essenziale un curricolo.
Noi, che ci auguriamo di PensarBene, pensiamo che occorra una “visione comune” (almeno tra coloro che si occupano degli stessi allievi, genitori compresi), sostenuta da “una disposizione d’animo”, un modo di vivere la scuola in risonanza con i nostri allievi e in sintonia con colleghi, genitori, comunità e territorio. Diventa necessario, oggi più di ieri, sintonizzarci con chi ci sta davanti, anche se lo “stare davanti” fosse filtrato da uno schermo, da una visiera o da una mascherina. Vivere la scuola come spazio di risonanza,
significa costruire con gli altri innanzitutto relazioni basate sulla fiducia reciproca e sulla sensazione di essere importante l’uno per l’altro, come spiega bene Hartmut Rosa nel suo libro Pedagogia della risonanza (2016), paradigma peraltro rinforzato dalle ricerche neuroscientifiche sui meccanismi di rispecchiamento.
Privilegiare la sintonizzazione con gli allievi non significa attribuire poca importanza alle competenze, anche perché, come la ricerca sulla funzionalità dei neuroni specchio insegna, la possibilità che si inneschi uno stato di risonanza dipende dalle conoscenze che abbiamo in comune ad un dato momento, conoscenze che, gradualmente e soprattutto praticandole grazie ad una guida “significativa per me”, conducono all’acquisizione delle competenze.
Penso che il valore dell’offerta formativa non risieda tanto nello sviluppo delle competenze come fine in sé, quanto nel loro utilizzo come mezzo per poter agire nel mondo trasformarlo, trasformandoci a nostra volta. Il percorso formativo offerto agli studenti, più che un elenco di competenze da sviluppare, dovrebbe consistere in una successione di “tappe di crescita personale”, attraverso cui ognuno possa scoprire e riconoscere i propri talenti per costruirsi un ruolo attivo e creativo nella società (concetti che ben si accordano con l’idea di personalizzazione dell’insegnamento/apprendimento).
Sono dell’idea che “l’uomo colto” di oggi e di domani abbia molto a che fare con un livello elevato di “cittadinanza attiva”; c’è bisogno di persone capaci di “coltivare” le proprie risorse, trasformandole continuamente in risposta ai ruoli che vorrà assumersi in un mondo che cambia sempre più rapidamente, ma anche di persone consapevoli del nostro ruolo nelle trasformazioni, che il più delle volte subiamo piuttosto che governarle. Queste considerazioni ci conducono verso una possibile risposta alla seconda domanda: saperi essenziali a quale scopo?
In una società dove le trasformazioni del modo di vivere e di lavorare saranno sempre più rapide, automatizzate e impreviste, ci sarà sempre più bisogno di accrescere la capacità di adattarsi ai cambiamenti, cioè di una civiltà in cui la flessibilità delle idee «…si armonizzi con la flessibilità dell’ambiente per dar luogo a un complesso sistema dinamico, aperto a mutamenti graduali di caratteristiche anche fondamentali…» (G. Bateson in Verso un Ecologia della Mente; Adelphi Ed. 1976; p. 538). Le idee di Gregory Bateson appaiono oggi di una stringente attualità e foriere di insegnamenti fondamentali, come ad esempio, l’importanza di insegnare a cogliere la struttura che connette tutti gli organismi viventi, capacità che implica il saper riconoscere le regolarità, il carattere ripetuto e diffuso in ogni forma vivente, la cui ignoranza porta, a lungo andare, alla distruzione della nostra vita sulla terra.
Anche Draghi, al Metting di Rimini del18/8/2020, ha parlato di questo “imperativo assoluto”, ovvero un ritorno a una crescita “che rispetti l’ambiente e non umili le persone”. È quello che dovrebbe diventare anche il fine ultimo della formazione scolastica e che ha appunto a che fare con il concetto di “cittadinanza attiva” (Imparare ad imparare, Progettare – Comunicare – Collaborare e partecipare – Agire in modo autonomo e responsabile – Risolvere problemi, ecc), nell’ottica di un’imprenditorialità orientata allo sviluppo sostenibile e alla convivenza dei popoli. Si tratta di capacità/atteggiamenti che non si sviluppino alla stregua di meri contenuti disciplinari, ma che emergono come “effetti collaterali” dell’agire all’interno di una comunità dove il rispetto e l’aiuto reciproco sono assunti a ingredienti-base dell’apprendere.
Vale la pena ricordare che il rispetto e la disposizione all’aiuto non sono condizioni dovute, ma atteggiamenti che si provano e si offrono solo se si ricevono. I giovani hanno bisogno di “rispecchiamenti” adeguati da parte degli adulti, siano essi genitori, insegnanti o gruppo dei pari. È anche questo ciò che fa la differenza, il “di più” che bisogna dare ai giovani, per parafrasare nuovamente le parole di Draghi.
È all’interno di un percorso così concepito che trovano la loro ragion d’essere i compiti di realtà, mortificati anch’essi dalla didattica a distanza. A parte il lockdown che abbiamo subito, pensiamo che sia davvero sfavorito il compito di realtà nell’ambito di una didattica a distanza o digitale integrata? Dopotutto i compiti di realtà sono stati, nella maggior parte dei casi, prevalentemente svolti a casa. Non solo, ma il Covid sta riuscendo in un’impresa auspicata da anni e mai attuata: mettere fine una volta per tutte alla didattica trasmissiva (anche perché quest’ultima trova spazio illimitato nell’web) e privilegiare i compiti di realtà, cioè temi sfidanti o criticità/problemi da affrontare insieme (ai fratelli, genitori, enti culturali, imprese…), utilizzando tutte le fonti a disposizione (internet, tutorial, saggi…). In fondo la didattica attiva, per problemi o per competenze ha da sempre oltrepassato i confini dell’aula, ed oggi, a maggior ragione, può abitare spazi più ampi, dalle offerte del territorio alle nuove tecnologie.
Inoltre, i compiti sfidanti, proprio perché mettono alla prova gli apprendimenti e il processo messo in atto, non solo possono essere presi molto sul serio nell’ambito di una didattica digitale integrata o aumentata, ma consentono anche di superare i limiti di una valutazione tradizionale, qualora il processo valutativo si svolgesse a distanza, condizione che richiede appunto altri criteri di valutazione.
A proposito dell’estensione dello spazio-tempo che abitiamo, sappiamo da tempo, soprattutto anche grazie alle scoperte scientifiche degli ultimi trent’anni, che la mente non è più considerata un fatto individuale e interno, ma un fatto “relazionale”; la cosiddetta “mente estesa” che si diffonde dal nostro corpo all’ambiente che ci “forma” e che incorporiamo, assimilando le nostre esperienze del mondo e sul mondo sotto-forma di schemi sensoriali e motori. Per questo noi, gli altri e il mondo formiamo un’unica unità, un’unica mente, ben raffigurata oggi dalle connessioni e dalle potenzialità della rete di internet, la cui immensa connettività riproduce la struttura del cervello umano.
Se siamo tutti connessi e il cervello stesso funziona grazie ai collegamenti interni ed esterni, come possiamo pensare che l’apprendimento sia un fatto privato o limitato ad una relazione insegnante/allievo (pure importantissima) o limitato ad una classe? Ancora una volta, forse non tutto il male viene per nuocere. Affrontare le criticità, anche dolorose, può spingerci ad aprirci al mondo là fuori, a tessere relazioni che prima non consideravamo necessarie, a intrecciare progetti formativi con e nel territorio, e non solo nelle esperienze di alternanza suola-lavoro (o PCTO), ma anche a partire dal primo ciclo di scolarità.
Daniela Mario
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