di Dario Nicoli
La grande mobilitazione del neo comunitarismo va vista come un tentativo di risposta immediata alla solitudine che caratterizza il tempo nuovo; essa offre a chi abita nel territorio occasioni di appartenenza e di vita in comune, ma queste esperienze consentono, innanzitutto nel linguaggio, un riconoscimento ed una consolazione verso quello smarrimento esistenziale di chi afferma, come dice Vasco Rossi, “ora qui…siamo soli…siamo soli…siamo soli…siamo soli…”?
Occorre che nelle esperienze neocomunitarie accada un salto di qualità che vada oltre la dinamica della risposta ai bisogni, per cogliere nell’anima quella perdita dell’incanto che è accaduta con la modernità e la deificazione dell’uomo e della ragione, e che ha portato allo strapotere della tecnica ed allo smarrimento dell’io.
Ciò è evidente nel modo in cui agisce la scienza, che si è assunta il compito non solo della spiegazione di ciò che accade, ma anche di oracolo di ciò che accadrà, ma non riesce a convincere né a consolare in quanto è segnata inesorabilmente da un’amputazione di quella parte del reale che non è riducibile ad un calcolo e ad una manipolazione tecnica.
Le scoperte sull’infinitamente grande e le narrazioni che ne sono derivate dicono di un cosmo che non ci parla, che confina la Terra in un punticino che non si può nemmeno dire lontano perché non c’è neppure un centro…; le scoperte sull’infinitamente piccolo parlano di funzioni e dinamismi che operano per forza propria e che rispondono a leggi necessarie senza offrirci neppure la possibilità di una comprensione unificante. Tutto sembra relativo: il certo e l’incerto, il vero e il falso, il bene e il male… Con il risultato della perdita dell’essere umano a se stesso.
I pensieri che occupano per gran parte la mente delle persone si muovono su due livelli tra di loro intrecciati: le questioni ultime: chi sono io, qual è il senso del reale e della mia esistenza, da dove veniamo e qual è il nostro destino; inoltre le questioni immediate: come giudicare ciò che accade, come stare nei rapporti con gli altri e con me stesso, come dedicare la mia vita a qualcosa che mi realizzi veramente e mi offra un senso di riconoscimento in quanto con la mia parte sto contribuendo al bene che ci riguarda tutti.
Le esperienze di neo comunità possono radicare nelle persone il sentimento morale, non quello imposto dalle convenzioni sociali, ma quello che deriva da un riconoscimento immediato, direi naturale, del bene che è in gioco e che ci sollecita ad una dedizione di vita.
Entro le esperienze di comunità è anche possibile una “cura dell’anima” che si rivolga alla dimensione spirituale e trascendente dell’uomo, e che gli insegna a porsi di fronte al mistero che è presente ed anima tutto il reale e che unisce in un disegno unico ogni cosa sopra e sotto i cieli, lontana e vicina, già accaduta, che accade e che accadrà.
Se l’homo solitarius, come afferma Alberto Magno, è o una bestia o un dio, ma non un uomo in senso autentico, per salvarlo soprattutto da se stesso e dalle pulsioni all’autodistruzione non bastano i luoghi dell’abitazione e quelli delle cure, in quanto è in gioco qualcosa di più profondo che alcuni chiamano felicità.
A questo proposito è illuminante ciò che ha dichiarato sempre Vasco Rossi in una recente intervista: “Se penso alla mia vita posso dire di essere stato felice un sacco di volte ma sempre per degli attimi…anche se poi non sono in grado di raccontarvene nessuno. Perché è una situazione interiore, che non si riesce a spiegare…A dirla tutta credo che abbiamo più bisogno di amore che di felicità”.
A proposito di amputazioni: nel resoconto di Repubblica è stata omesso il riferimento all’amore. Pensate bene, amici, pensate bene!
In questo articolo, che apprezzo molto nel suo insieme, due questioni mi sembrano fondamentali. La prima riguarda il rapporto tra la scienza e la religione. La scienza, finchè resta tale, cioè pura conoscenza del mondo, non basta e non è mai bastata all’uomo. Si può essere credenti o meno. Penso però, che nessuno possa negare che una parte dell’anima umana non si è mai accontentata della realtà. Quest’ultima è sempre stata inglobata in una visione o narrazione o storia ecc. che, sino all’epoca moderna, è sempre stata profondamente intrisa dalla religione e dall’arte.
La seconda considerazione riguarda solamente la religione e l’arte. Non è che nell’uomo moderno, occidentale, queste dimensioni siano realmente sparite (penso in particolare alla religione). Se si crede nell’universalità della mente umana, si dovrà anche ammettere che la sua parte “irrazionale” non può essere andata persa. Deve essersi rifugiata da qualche parte e, questa parte, credo sia l’individuo. Come, tra gli altri, sostiene Harari, l’individuo è stato divinizzato nelle nostre società e la religione ha perciò assunto un volto inedito: anzichè essere collante della comunità è divenuta un fattore divisivo (una specie di Babele, ampiamente documentata dai social, che mette tutti contro tutti). Un fattore, quest’ultimo, che può non dispiacere ai pochi che, tramite il potere economico e politico, riescono ad imporre il loro Dio personale, raccolto qua e là, al “supermercato delle credenze”, ma che getta nella solitudine più devastante tutti quelli che di questi poteri dispongono solamente poco oltre la sussistenza. E’ in questo contesto che “la voglia di comunità” torna a farsi sentire prepotentemente, minacciando di travolgere insieme (qualora non fosse ascoltata, come in parte sta accadendo) sia l’individuo sia la democrazia che, almeno sino ad oggi, ne ha incarnato la forma politica.