di Bruno Perazzolo
Molti “critici”, indicando questo o quel difetto di un paese democratico, concludono sostenendo che la democrazia non esiste, peggio è un inganno. Tuttavia, ragionando in questo modo, potremmo dire che neppure la giustizia, l’eguaglianza, lo stato totalitario, la materia e/o l’universo esistono o sono mai esistiti. Il punto è che “le mappe che abbiamo in testa sono sempre diverse dal territorio” cui si riferiscono. Sennonché sostenere che una mappa, un’idea, un concetto, mancando di questo o quel tratto di realtà, sia inutile è un grave errore. Prova ne sia che “chiunque cerchi un tesoro necessita di una buona mappa” tanto più vantaggiosa quanto più capace di rappresentare “il mondo” in maniera semplificata. Trattando dello “stato di salute” della democrazia il principio non cambia: è necessario disporre di una sua “immagine ideale” per riconoscerne la solidità, piuttosto che i limiti o le patologie. Di seguito proverò a fornire alcuni “pixel cruciali” di questa immagine. Poiché l’insieme dei “pixel” è troppo lungo per un blog, ne propongo una lettura scaglionata. Qui sotto i link alle singole parti.
La democrazia è uno Stato di Diritto: i limiti della sovranità popolare
La democrazia riconosce ai cittadini le libertà fondamentali: libertà di manifestazione del pensiero, libertà di religione, libertà personale e libertà d’impresa. In altre parole riconosce la dignità della persona
La democrazia riconosce ai cittadini le libertà collegate alla partecipazione politica dei cittadini (cosiddetti diritti politici) quali il diritto di riunione, di associazione, di voto e di esercizio dell’elettorato passivo. In altri termini, riconosce la persona nella sua interezza
La democrazia impone la divisione dei poteri: poteri distribuiti su tutto il popolo: la “democratizzazione delle competenze”
Un’anima un popolo
Un’idea di lavoro: l’attitudine umana per eccellenza
La democrazia è uno Stato di Diritto: i limiti della sovranità popolare
Potrà apparire curioso, ma è proprio così: la longevità della democrazia dipende dai limiti che si autoimpone stabilendo i confini (le norme) che la stessa sovranità popolare non può oltrepassare. Al riguardo l’art. 1 comma 2 Cost. è chiarissimo.
La sovranità appartiene al popolo, CHE LA ESERCITA NELLE FORME E NEI LIMITI DELLA COSTITUZIONE.
E’ la nozione di Stato di Diritto in base alla quale i principi sanciti dalla Costituzione sono sottratti alla deliberazione maggioritaria. Nel suo commento all’art. 1, Roberto Benigni, illustra magistralmente questo concetto che presenta, però, “un rovescio della medaglia” non meno insidioso: quello della recente tendenza alla proliferazione dei diritti costituzionalmente garantiti. Quest’ultima, infatti, riducendo l’autorità politica, tende a generare anarchia e quella domanda di maggiore sicurezza che, in genere, conduce ai sistemi autoritari.
La democrazia riconosce ai cittadini le libertà fondamentali: libertà di manifestazione del pensiero, libertà di religione, libertà personale e libertà d’impresa. In altre parole riconosce la “dignità della persona”
La democrazia corrisponde al volere dei più. Perciò, banalmente, senza la libertà di pensiero in ambito politico, religioso ecc. e senza la libertà di ESPRIMERE questo pensiero attraverso i mezzi di comunicazione, la partecipazione al culto, il voto segreto ecc., non sarà mai possibile sapere se l’effettivo volere dello Stato, sancito dalla legge, corrisponda a quello del Popolo. Ma c’è molto di più. La libertà dei cittadini è fonte creativa di differenza, di idee nuove che, anche qualora restassero minoritarie, costituirebbero comunque un serbatoio cui attingere qualora, in presenza di cambiamenti radicali del contesto economico, sociale e politico, i vecchi concetti si dimostrassero inadeguati. Infine, e si tratta probabilmente dell’argomento più importante, la democrazia senza libertà si tradurrebbe da subito in un’autentica “dittatura della maggioranza” che, togliendo a ciascuno la possibilità di esprimere la propria individualità e i propri talenti, priverebbe, al pari di ogni altro regime autoritario, la persona della sua dignità.
La democrazia riconosce ai cittadini le libertà collegate alla partecipazione politica dei cittadini (cosiddetti diritti politici) quali il diritto di riunione, di associazione, di voto e di esercizio dell’elettorato passivo. In altri termini, riconosce la persona nella sua interezza.
Si tratta di quel sottoinsieme di libertà collegato al pluralismo politico e, quindi, al principio dell’alternanza cui è associata l’attitudine “AUTOCORRETTIVA” del sistema democratico. Quest’ultima sussiste solo nella misura in cui – qualora la volontà dello Stato si allontanasse da quella dei cittadini – si offra l’opportunità alle formazioni politiche di minoranza di divenire esse stesse maggioranza. In termini concreti, è evidente che, se nella competizione politica solo una parte avesse la possibilità di riunirsi, organizzarsi in associazioni, diffondere le proprie idee ecc., allora, anche nel caso in cui le elite al potere dovessero assumere indirizzi contrastanti con l’orientamento della maggioranza dei cittadini, non sarebbe possibile alcun cambiamento.
Art 2 Cost.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, SIA COME SINGOLO, SIA NELLE FORMAZIONI SOCIALI ove SI SVOLGE LA SUA PERSONALITÀ, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Oltre al pluralismo politico, l’art. 2 Cost. indica, però, un altro argomento, non meno rilevante, a favore del pieno riconoscimento dei diritti di libertà, quelli politici compresi. Il punto sta nel fatto che le stesse libertà fondamentali, di cui al paragrafo precedente, raramente sono concepibili come libertà esclusivamente individuali. Assai frequentemente sono esercitate attraverso la formazione di organizzazioni collettive (le formazioni sociali menzionate dall’art. 2) quali comitati, associazioni, società ecc.. Negare a queste ultime (cioè ai luoghi dove “si svolge la personalità” di cui all’art. 2) le libertà che formalmente dovessero essere riconosciute solo alle persone fisiche, significherebbe, di fatto, negare i fondamentali diritti di libertà tout court.
La democrazia impone la divisione dei poteri: poteri distribuiti su tutto il popolo: la “democratizzazione delle competenze”
Nel contesto della cultura liberal – democratica, l’idea della divisione dei poteri rappresenta il nucleo di un concetto più generale che – all’interno della visione “populista ottocentesca americana”, assai lontana dall’attuale populismo – C. Lasch individua con il termine “democratizzazione delle competenze”. In senso stretto “divisone dei poteri” significa che le tre funzioni di vertice dello Stato – legislativa, esecutiva e giudiziaria – dovrebbero essere esercitate, ciascuna, indipendentemente dall’altra. In senso più ampio, il principio manifesta la profonda diffidenza che la cultura democratica evidenzia verso qualsiasi concentrazione di potere economico, politico, tecnologico, nell’informazione ecc.. Al contrario, il favore viene riservato alla concorrenza tra i poteri dello Stato, esattamente come nelle attività d’impresa o in quelle dedicate alla ricerca ecc.. Il motivo è, al tempo stesso, semplice e basilare: quanto più i poteri sono diffusi, tanto più il cittadino, al pari del consumatore nel caso del mercato, acquista sovranità effettiva. Discende anche da qui l’idea dell’eguaglianza sostanziale come garanzia di libertà per tutti i cittadini dal momento che una distribuzione sperequata del reddito e della ricchezza è sempre sinonimo di una concentrazione di potere che fa a pugni con il principio democratico. Infine, discende sempre da qui l’intimo rapporto tra la democrazia e quanto magistralmente espresso nell’art. 5 della nostra Costituzione:
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Il diffuso sentimento di indipendenza, di fiducia nei propri mezzi e di responsabilità che mobilita i cittadini formando il cuore dello spirito democratico, non è infatti solo individuale. E’ soprattutto collettivo. E’ quello spirito che abita nella comunità locale il cui spazio vitale dipende essenzialmente dal decentramento e dall’autonomia, cioè dalla capacità dello Stato di riconoscere, nel principio di sussidiarietà verticale e circolare, quel fattore che, più di ogni altro, può formare la persona; ovvero la pietra angolare della democrazia. Ancora una volta l’illustrazione di Roberto Benigni ci viene in aiuto con questo breve video: commento all’art. 5 Cost.
Un’anima un popolo
L’unità di popolo è il principio che più si collega all’eguaglianza sostanziale di cui tratta il 2^ comma dell’art. 3 Cost.
“E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
E’ il sentimento dell’eguaglianza politica. In ultima analisi, è quel sentimento di prossimità che, al di là delle oggettive differenze economiche, di status ecc., rappresenta l’anima della sovranità popolare. Quando questo spirito è presente, significa che, oltre le obiettive distanze tra persona e persona, un unico alito ci rende solidali, appartenenti ad una stessa nazione, al suo destino e, perciò, responsabili e disposti alla cura / carità. Figli di un popolo portatore di una civiltà che abbiamo ricevuto in dono, sentirsi parte, porta necessariamente a farsi carico di una consegna a chi verrà dopo di noi.
Un’idea di lavoro: l’attitudine umana per eccellenza
Per ultimo, ma non ultimo, il primo comma dell’art. 1 Cost. che recita:
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”
E’ il cosiddetto “principio lavorista” che, come credo dica bene Roberto Benigni nel suo già citato commento all’art. 1, “abbiamo solo noi italiani”. Si tratta però di un requisito che, seppure non citato nelle altre Costituzioni democratiche, ha una valenza universale.
Secondo André Leroi-Gourhan – docente della Sorbona, da dove ha diretto il Centre de documentation et recherches préhistoriques et ethnologiques – l’evoluzione di Homo Sapiens evidenzia una dialettica fondamentale tra la mano e il cervello. In altri termini, il gesto e la parola si plasmano vicendevolmente secondo una logica unitaria. Teoria e pratica, lavoro e cultura sono, dunque, “espressioni” inscindibili della persona[1]. Sennonché, la successiva evoluzione sociale si è spesso incaricata di smentire questa “sacra unità” dividendo quello che la “natura aveva unito” in ogni individuo e confinando l’intelletto in alcuni ceti e il lavoro in altri. Poiché la manifestazione estrema di questa “innaturale separazione” è la schiavitù, si può ben comprendere come il suo opposto, l’idea di democrazia, non possa esimersi dal vedere, nella ricomposizione e nella pari dignità del lavoro manuale e intellettuale, il segno più evidente della libertà da cui innanzitutto sorge quel sentimento di eguaglianza politica che ne costituisce il più solido fondamento.
Nel film “la classe operaia va in paradiso”, di Elio Petri, 1972, il Militina, operaio comunista, finisce al manicomio dopo aver preso per il bavero della giacca l’ingegnere capo. Voleva una risposta ad una domanda vitale “a cosa servono i pezzi che costruiamo in questa fabbrica?” La risposta era una questione di vita o di morte, come questione di vita o di morte è ottenere risposte alle domande che nascono dai bisogni fondamentali in assenza delle quali subentra l’alienazione; la pazzia del Militina, la pazzia degli altri compagni alla catena di montaggio che sperimentano la mancanza di risonanza, di corrispondenza tra sé stessi e il mondo.
Ancora una volta ci soccorre la nostra Costituzione. L’art. 4 recita mirabilmente
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Il lavoro è un diritto perché corrisponde al bisogno profondo che ogni “uomo integrale” sente di “concorrere al progresso materiale e spirituale della società” art. 3 c. 2, di cui è parte. Si dice, pertanto, che il lavoro è un diritto sociale, ma, in ultima analisi, è un diritto di libertà: la libertà che si manifesta nella partecipazione al bene comune più grande: quello del popolo cui si appartiene. Ma il lavoro è anche un dovere di cui si nutre la democrazia che, soprattutto, esige dai cittadini, come direbbe C. Lasch, il rispetto di se stessi in assenza del quale, dal nostro prossimo, potremo forse ottenere compassione e tolleranza, ma non il rispetto. Anche in questo caso un bellissimo film può aiutare la comprensione di un concetto non semplice. Come possiamo compatire senza rispettare? Nella pellicola di Giulio Manfredonia, “Si può fare”, 2008, Claudio Bisio, bandito dal sindacato per le sue idee eterodosse sul mercato, viene “confinato” a dirigere una struttura assistenziale psichiatrica. Lo storia, tratta da fatti “realmente accaduti e che tutt’ora accadono”, racconta della differenza tra compassione e rispetto. I pazienti della struttura ottengono compassione e assistenza, ma è solo tramite il “lavoro buono” che acquistano il rispetto di se stessi e quello degli altri.
[1] André Leroi-Gourhan, il gesto e la parola, 1964
Un lavoro notevole, che andrebbe studiato da tutti, non solo dagli studenti, in quanto mette in luce le tre dimensioni della democrazia: l’ordinamento politico, l’idea di persona-comunità, il sentimento democratico che fonda i doveri verso gli altri e verso se stessi
Grazie Dario. Vero! Il lavoro è stato concepito in un’ottica formativa di approfondimento. Come previsto. Una specie di supporto didattico ai nostri incontri dai quali, strada facendo, penso verranno altri miglioramenti.
Grazie Bruno per “l’immagine ideale” di democrazia che hai tentato di delineare. Concordo con la dualità dei concetti (es. la mappa non è il territorio, ma per orientarci, o cercare un tesoro, abbiamo bisogno di una mappa; basta aver sempre presente che non possiamo mai conoscere il “territorio reale”, perché è conoscibile solo attraverso le nostre mappe mentali).
È un articolo ricco di spunti, ma mi piacerebbe capire meglio che idea di democrazia stai sostenendo o sottintendendo?
Cosa proponi in alternativa alla “dittatura della maggioranza” ?Tocqueville, giusto?
Fu il primo a coniare questa espressione, se non ricordo male! Ma era 200 anni fa, era una delle prime rappresentazioni di democrazia, poco a che fare con la complessità che richiede la democrazia oggi, anche se, è grazie a quel germe che abbiamo potuto elaborarla.
Importante (almeno dal mio punto di vista) è non arrivare a sostenere la “dittatura della minoranza” (anche se rappresentare le minoranze è importantissimo!) perché di questo passo si arriverebbe presto a “l’uomo solo al comando”!
Gli anticorpi alla “dittatura della maggioranza” sono stati previsti dalla nostra Costituzione: separazione dei poteri; formazione dei partiti (a dare espressione a tutte le esigenze), le associazioni, i sindacati (in difesa degli interessi di parte anche minoritarie). Antidoti suggeriti dallo stesso Tocqueville, a soluzione del paradosso tra uguaglianza e libertà (mi sembra sia stato ripreso anche J.Stuart Mill; nel senso che: più si è uguali meno si è liberi di esprimere la propria individualità, ma nello stesso tempo l’individualismo porta ad un allontanamento dei rapporti sociali e di comunità).
Come mai non hanno funzionano questi strumenti a salvaguardia della democrazia? Le cause sono diverse, ne cito alcune: l’imperativo categorico della logica di mercato, l’incontinente individualismo, un consumismo sempre più sfrenato, la dipendenza da internet, ecc.; tutti bisogni che allontanano dal sentimento di comunità e dall’esercizio della responsabilità individuale. Tuttavia, fintanto che il 40% della popolazione non vota più, la democrazia s’indebolirà gioco-forza, in quanto chi poi finirà per governarci non potrà rappresentare il popolo! Ma soprattutto, se la percentuale dei non votanti aumenterà, la “dittatura della minoranza” è dietro l’angolo! Ma non lamentiamoci poi, se siamo i primi a far venir meno le condizioni per il realizzarsi della vita democratica.
Grazie Daniela. Le questioni che poni sono cruciali: 1) naturalmente la democrazia è un concetto cui la realtà può avvicinarsi più o meno: se si allontanasse molto, come per un qualsiasi altro sistema organico, saremmo legittimati a parlare di crisi e persino di morte (cosa che è successa tante volte nella storia) ; 2) l’idea di democrazia che sostengo è esattamente quella che ho cercato di illustrare nell’articolo. E’ un concetto prescrittivo, non descrittivo e perciò sempre migliorabile. Io ho fatto quel che potevo, cercano però di rimanere sull’essenziale; 3) il tema della dittatura della maggioranza può essere equivoco. Una figura retorica diffusa per definire la democrazia è proprio questa: la “dittatura della maggioranza”. Spesso l’ho usato pure io per sottolineare come, in democrazia, il potere politico sia nelle mani della maggioranza. Pensandoci bene, però, sbagliavo come sbagliano tutti coloro che insistono nell’apostrofare la democrazia in questo modo. La democrazia rischia fortemente di diventare una “dittatura della maggioranza” in senso proprio, quando non riconosce i suoi limiti, ovvero i limiti alla sovranità popolare sanciti dalla Costituzione. Il video di Benigni questo concetto lo chiarisce ottimamente e anche quello che è successo in questi giorni al Parlamento Europeo a proposito del caso dell’Ungheria di Orbàn. Lasciando perdere i diritti delle “comunità LGBT”, che non c’entrano nulla con i diritti fondamentali, e che ovviamente rientrano nella discrezione dei parlamenti nazionali e delle relative maggioranze; la democrazia Ungherese si “traduce in una dittatura della maggioranza autentica, quando lo stesso Parlamento ungherese introduce limitazioni sostanziali alla libertà di religione, di manifestazione del pensiero, alla divisione dei poteri nell’ottica del partito unico. Se così fosse (come purtroppo pare che sia), anche qualora la maggioranza condividesse queste limitazioni, non potremmo più parlare di democrazia ma solo, ripeto, di vera “dittatura della maggioranza”; 4) Tocqueville è un autore che devo rileggere: basilare! E’ però comunque assolutamente probabile che le mie vecchie letture di questo gigante abbiano comunque influito sulla mia mappa soprattutto su questo punto: democrazia non significa solo diritto di voto o diritti di libertà. La solidità di una democrazia la si desume anche, e forse soprattutto, da altri di fattori extragiuridici quali le l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini, lo stato di salute delle comunità locali, il rispetto del lavoro manuale ecc.. Il fatto di aver ridotto la democrazia ad una semplice questione formale di rispetto delle libertà e di diritto di voto, dimenticandone l’enormità culturale identitaria e secolare (la democrazia è in primo luogo una grande cultura frutto di generazioni, di conflitti, di effetti non previsti) è stato forse l’errore più grave che abbiamo commesso, democratici convinti in primis.