di Dario Nicoli
Come dicono i filosofi, l’esistenza umana è posta entro un paradosso. Vuol dire che è combattuta tra due pulsioni che sembrano tra di loro inconciliabili: affermare se stesso nel superare se stesso. Ma questo superamento dovrebbe avvenire secondo una dinamica che scaturisce dall’appartenenza ad un mondo di vita comune. Quindi riguarda ancora il proprio io, quella vita dell’individuo che è compresa nel noi.
L’opera del superamento di sé appare particolarmente ardua nei nostri tempi, soprattutto perché l’io ha troppe cose da conservare e troppi pensieri da cui doversi distaccare. Il cittadino dell’Occidente porta sulle spalle il peso di un ego non indifferente, che rappresenta sia un’opportunità (ricerca di pienezza) ma anche una gabbia (dominio dell’ego). Ecco due esempi letterari, con esiti contrari, ambedue tratti dallo stesso tentativo di liberazione da se stessi, quello che si compie nel viaggio e nell’avventura.
- Peter Matthiessen ne Il leopardo delle nevi parla della spedizione con l’amico George Schaller per salire sulla Montagna di Cristallo, nel Tibet, dove poter vedere questo animale molto raro e leggendario e imparare dalle popolazioni locali ad «appartenere al presente», avere coscienza dell’ “adesso” che si nasconde in ciascun evento della quotidianità. In altre parole, a liberarsi dell’ossessione di stare sempre da qualche altra parte, ciò che conduce a vivere nel caos. Ma rimane sempre inesorabilmente avvinghiato al suo io, tanto da concludere con un’amara riflessione: l’aver sprecato una grande occasione proprio perché sempre incarcerato nell’introspezione. E la coscienza di aver lasciato alle spalle una libertà vera lo colmano di disperazione.
- Paolo Cognetti racconta ne Il ragazzo selvatico la sua esperienza di eremitaggio a trent’anni in una baita presso il Monte Rosa dove «fare i conti con il passato e ritrovare l’ispirazione per la scrittura, che avevo perso». La vita nell’isolamento, l’amicizia con alcuni montanari, l’immersione nella natura non bastano a realizzare il miracolo. Il giorno in cui pretende di giungere in un villaggio non per i sentieri, ma attraversando i picchi dei monti, trovandosi senza più forze e senza sapere dove si trovasse, per la disperazione scoppia in pianto: «Era la pena per il mio peccato di presunzione. Ore dopo, sdraiato a singhiozzare su quel masso, ancora non ne vedevo la fine». È un pianto liberatorio che segna la svolta del suo cammino: Il compimento dell’avventura avviene mutando radicalmente il suo atteggiamento: non è più lui che pensa e fa, ma lascia che la realtà gli venga incontro come un dono che procura la serenità e la forza che cercava.
Il paradosso umano si mostra anche sul piano sociale: quale che sia la visione ideologica, di destra o di sinistra, il cittadino dell’Occidente non riesce a concepire una visione unitaria del bene per il mondo e del bene per l’io. Egli invoca sempre più leggi per perseguire ogni tipo di ingiustizia, vera o presunta, imponendo agli altri una rigida condotta morale, ma allo stesso tempo si appella ad una concezione assoluta di libertà, credendo che ciò non costituisca un limite la libertà degli altri. Ma se per legge si impone una certa condotta morale, sarà sempre una violenza nei confronti di chi possiede altri codici etici; mentre lasciare che ognuno conduca la vita come (onestamente) si sente porta ad un’implosione del mondo comune.
Ma allora, come si deve intendere il nesso tra libertà e vita buona?
Un caso estremo ci può aiutare: quello del suicidio. Sembrerebbe una scelta riguardante esclusivamente il mondo intimo di chi la compie, ma togliersi la vita non è una decisione privata in quanto ha un’enorme influenza non solo nella cerchia stretta, ma anche nel mondo più vasto. Inoltre, vi è da dubitare anche del presupposto filosofico su cui si fonda: davvero si può sostenere che l’individuo possiede se stesso? che la sua sia una libertà assoluta? Come afferma Michael Sandel, «il concetto del diritto di proprietà su se stessi è attraente, soprattutto per quanti vogliono trovare un fondamento solido ai diritti individuali».
Se l’uomo è padrone di se stesso, lo deve essere sin dall’inizio.
Vi sono due parole per definire l’evento del venire al mondo: è un dato oppure un dono. Il primo indica un possesso, qualcosa che è a nostra completa disposizione. Ma non siamo venuti all’esistenza per nostra decisione, bensì come un dono di cui siamo stati beneficiati; è una verità lampante, ma è come se si vivesse credendo il contrario. È qui che si trova la radice dell’individualismo contemporaneo: la persona che pensa se stessa come un essere autosufficiente considera il proprio io come criterio ultimo circa il bene e il male, cadendo nell’errore sostenuto da Jung: «L’unica vita che abbia un significato è quella che lotta per la realizzazione dell’individuo, assoluta e senza condizione».
Se vengo al mondo nella posizione del destinatario di un dono, allora questa è la chiave che mi apre la strada per trovare la risposta al paradosso dell’esistenza.
Le scienze umane ci dicono che, purtroppo, per stare in mezzo agli altri occorre accettare i limiti della convivenza. Ma si tratta unicamente di una sottomissione?
Se esistono solo due attori, l’individuo e la società, ciò può essere vero, ma quando facciamo parte di un mondo comune, una comunità, avvertiamo dentro di noi virtù morali “apprese nelle relazioni”, “sentite da dentro” e condivise entro il mondo di appartenenza.
Il primo caso riguarda la socialità, un’interazione tra individui che hanno bisogno gli uni degli altri, ma senza necessariamente uscire dai confini della propria individualità; il secondo apre alla socievolezza, la forma ludica dell’interazione con gli altri, quella che dona ai partecipanti un piacere reciproco tanto da motivare ciascuno a rinunciare, in una certa misura, all’affermazione del proprio ego. In tal modo, l’interazione con gli altri non risulta più limitata alle relazioni di interesse, ma rappresenta un’esperienza di vita alimentata dalla virtù della benevolenza (il charis degli antichi greci) e orientata al vivere bene.
Come dice Aristotele, «chi non è in grado di entrare nella comunità, o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte di uno stato, e di conseguenza è o bestia o dio».
È da escludere che l’uomo sia un dio, ma se è bestia, è davvero infelice.
Un bell’articolo che, opportunamente, ribadisce un punto cruciale sul quale stiamo lavorando da due anni e più: individuo “versus” comunità. Torneremo sul tema in maniera, se possibile, ancora più “diretta” con il prossimo podcast sul contrattualismo”
Grazie per l’articolo. Io resto molto molto dubbiosa sulla tenuta di queste argomentazioni.
Provo per come sono capace ad argomentare le mie perplessità e anticipatamente mi scuso se non riuscirò nell’intento.
Primo aspetto: se la questione non fosse l’ego in posizione di dominio o alla ricerca della pienezza,
ma l’annullamento in vita della propria essenza?
In che cosa si palesa il dono? Nella possibilità di vegetare o di essere partecipe al mondo? Il ritrovarsi fuori dalla comunità perché gravemente malati, impossibilitati ad esercitare ogni basilare processo di vita in autonomia che forma di vita è? Non certo quella che descrive Aristotele.
Possiamo ancora parlare di ego?
Altro aspetto la libertà. Scegliere di interrompere la propria vita non è una libertà, ma una condanna. Che venga perpetrata attraverso il suicidio o l’eutanasia è una scelta estrema, anche vissuta come forma di redenzione. Sentimento umano, estremo che non richiede certo un giudizio, ma accoglienza e pietà.
Terza questione, a mio avviso più complessa, che ruolo deve avere lo Stato? La situazione è molto diversa a seconda dei paesi a cui ci riferiamo. L’Olanda prevede l’eutanasia da più di vent’anni, altri come Spagna e Belgio hanno delle leggi che regolamentano il fine vita. Emblematico il caso della Svizzera, che ha equiparato il suicidio assistito a prodotti di nicchia. Chi ha i mezzi economici ha più diritto di “saltare” la sofferenza? Mi riferisco alla descrizione che fa Sandel nel testo “Quello che i soldi non possono comprare” della società di mercato, una società dove tutto è in vendita. I rischi sono disuguaglianze e corruzione. Così anche poter porre fine alle sofferenze è diventato un bene acquistabile da pochi.
Chiudo con una riflessione sulle cure palliative, previste anche in Italia e destinate ad alleggerire la sofferenza di chi non ha nessuna possibilità di sopravvivere. Condanniamo anche quelle? Se usiamo la medicina e la scienza per migliorare la nostra vita credo si debba rivedere anche il ruolo che esse svolgono applicate alla morte.
Grazie Gabriella. Sono d’accordo sul totale rispetto per chi si suicida; la questione però sta nel fatto se questa scelta si compia nella “assoluta libertà” dell’individuo, oppure se coinvolga anche i propri cari e la comunità. Siamo davvero proprietari della nostra vita? Lo stato deve solo favorire ogni decisione dell’io in quanto padrone di sé? La nostra Costituzione – giustamente difesa per altri contenuti – non prevede questo, ma afferma il valore della vita. Inoltre, già dai tempi di Pannella, non mi convince questa insistenza sulla morte come liberazione: non è un segnale di decadenza dell’Occidente?
Dario che questione complessa e personalmente molto dolorosa stiamo dibattendo.
Ma dal punto di vista giuridico siamo liberi di fare delle scelte penso al testamento biologico o all’autorizzazione in caso di morte all’espianto degli organi o degli organi dei nostri figli . In quale forma di libertà rientrano queste prassi? Io non considero la morte una liberazione, ma una condizione naturale degli esseri umani. Se però accettiamo la scienza e la medicina per curarci credo che anche per morire si possa farne ricorso. In che termini non lo so. Questo è sintomo della decadenza dell’occidente? Probabilmente si, ma dicendo che non godiamo dell’assoluta libertà e lasciando le persone attaccate ad un respiratore per anni, ci allontaniamo dalla decadenza?
Comprendo e rispetto le ragioni di Gabriella e di Dario. Non credo siano, necessariamente, in contraddizione. Quando ho dovuto, recentemente, affrontare la morte di mia madre (mio padre l’ho perso a 40 anni, nel lontano 1994, quando ancora, inconsapevolmente e acriticamente, aderivo all’approccio liberal-progressista su questa questioni) ho vissuto tutto quello che dice Gabriella. I suoi argomenti sono stati i miei. All’ospedale mi hanno proposto l’Hospice, ma ho voluto portarla a casa sua. E’ morta dopo circa 4 – 5 giorni, non ricordo bene. Le ho somministrato io il cocktail fornitomi dall’assistenza domiciliare dell’Hospice. E’ morta circondata dalle persone che le volevano bene e alle quali voleva bene. Ecco, io trovo che la cosa veramente terribile della nostra epoca, sia la morte in solitudine e Dario fa bene a insistere sul contesto culturale che la sostiene e la promuove. Per fortuna l’ideologia non comanda interamente le nostre vite, e sino a qualche decennio fa, la morte in solitudine, la morte borghese, la morte come questione individuale, era un fenomeno meno popolare di adesso, credo. Non che si debba tornare indietro, ma inventarsi nuovi riti collettivi, penso lo si debba fare urgentemente. Per chi fosse interessato al tema, ho scritto qualcosa su questo argomento nella recensione al film “Juniper – un bicchiere di gin”.
Caro Bruno. Anche i miei genitori sono morti, mio padre 10 anni fa e mia madre 3. Lei è morta all’ospedale in quanto aveva anche il covid. I sanitari ci hanno lasciato entrare tutti e tre, ma è stata un’esperienza…stralunante. Mio papà è morto invece a casa, per merito di un medico dell’ospedale di Seriate che mi ha indicato due possibilità: lasciarlo “attaccato alle macchine” (come si dice in gergo l’accanimento terapeutico), oppure portarlo a casa così che potesse morire nel suo letto in mezzo ai suoi familiari. Io gli ho chiesto: “se fosse suo padre cosa farebbe?”. Mi ha risposto “lo porterei a casa”. Così abbiamo fatto, ed è stata un’esperienza consolante perchè vissuta nell’unione e nel calore della famiglia. Capisco quello che intende Bruno sul male del morire in solitudine. Quello dell’accompagnamento alla morte non è solo un prendersi cura ma è un rito, in quanto si avverte di stare sul limite del nostro controllo sulla nostra vita, il limite di ciò che è sacro. E’ il momento nel quale si comprende la ragionevolezza dell’affidarsi.