di Dario Nicoli
Può essere che la manifestazione del 9 ottobre della Cgil possa servire a rimettere al centro dell’attenzione generale il tema del lavoro, ma gli slogan ed i contenuti del discorso di Maurizio Landini suscitano qualche legittimo dubbio.
Quando il leader del primo sindacato italiano afferma che «in questi anni i governi e le opposizioni non hanno ascoltato le lavoratrici e i lavoratori, con scelte che sono andate nella direzione opposta. La condizione è peggiorata» non dice tutta la verità: infatti da due decenni vi è stata una successione continua di riforme riguardanti le politiche del lavoro, compresa quella più rilevante, Il Jobs Act del 2014, che ha introdotto un meccanismo a tutele crescenti per favorire le assunzioni e la regolarizzazione dei rapporti di lavoro verso il tempo indeterminato. Una norma contrastata per motivi pregiudiziali dallo stesso sindacato, le cui previsioni pessimistiche sono state però puntualmente smentite dai fatti.
Sul piano quantitativo il tasso di occupazione complessivo è in continua crescita superando per la prima volta nella storia la soglia simbolo del 60%, e ciò riguarda tutte le fasce di età ed entrambi i sessi. Mentre cala progressivamente il numero di persone in cerca di lavoro, molto di più dei posti di lavoro che rimangono orfani di candidature, stimati oramai oltre le 700 mila unità.
Cosa ci suggeriscono questi tre dati contrastanti?
In primo luogo che l’Italia si trova in una fase economica positiva, anche se la guerra in Ucraina ne ha rallentato la crescita. Ciò significa che le imprese italiane, e quelle di proprietà straniera ma con sede in Italia, mostrano capacità tali da porle nella fascia alta dell’economia globale. A questo va aggiunto l’influsso dei fondi della Next Generation UE che stanno movimentando buona parte del nostro tessuto produttivo.
In secondo luogo che il Reddito di cittadinanza, che non pochi consensi ha riscosso nel sindacato di Landini, ha funzionato al contrario rispetto alle giustificazioni originarie, divenendo un disincentivo al lavoro visto che si può vivere per anni di un sussidio permanente e incondizionato.
Infine che il problema prioritario risulta essere sempre più la formazione al lavoro dei giovani e la riqualificazione degli adulti.
Emerge quindi la necessità di comprendere meglio il tempo odierno.
Sul tema della povertà vale ciò che ripete continuamente il Papa: «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio: il lavoro è la porta della dignità». Un principio che compare nel primo articolo della nostra Costituzione, che richiama un concetto caro a Christopher Lasch: la “democrazia delle competenze” rappresenta la strada che può davvero ridurre il peso delle diseguaglianze di partenza, in quanto condizione che pone alla portata di tutti i cittadini l’accesso alle opportunità sociali e lavorative. Di fronte alla progressiva contrazione delle scuole che formano al lavoro, servirebbe una strategia di rilancio basata su un curricolo che formi il lavoratore entro un paradigma civico e culturale; dobbiamo però registrare da parte dei sindacati, pochi esclusi, una posizione favorevole invece all’ampliamento dei percorsi generalisti che rinviano a dopo l’università la decisione circa la professione da svolgere.
Il lavoro è entrato da tempo in uno scenario nuovo, in cui alla questione retributiva e quella della sicurezza va aggiunta la “sofferenza esistenziale”, un tema che nel passato neppure veniva posto. Si tratta di modelli organizzativi e di controllo che prosciugano le energie personali, oltre a lavoratori che hanno l’impressione di fare nelle loro aziende cose inutili o addirittura dannose. Il fenomeno delle “Grandi dimissioni” lo conferma, visto che le motivazioni addotte non riguardano solo la questione dei soldi.
È tempo di approfondire la sostenibilità ecologica e soggettiva del lavoro, perché le persone possano svolgere un’attività che offra loro la possibilità di contribuire al bene della comunità e dei singoli; non solo le professioni sociali e sanitarie, ma anche quella vasta area di settori che sono pienamente coinvolti nel cambio di paradigma che va sotto il nome di economia green.
Sono pienamente d’accordo che c’è bisogno di ripensare al lavoro in modo da restituire ad esso la dignità che merita, in termini economici ed ecologici, per dare senso all’esistenza umana. Sono anche d’accordo che ciò non può prescindere dal rispetto ambientale e dalla riduzione degli sprechi di ogni tipo. Concordo anche sul fatto che il reddito di cittadinanza non risolve il problema del lavoro, anzi, cosi com’ è gestito, è un disincentivo al lavoro e le misure assistenziali hanno senso se sono provvisorie, in quanto non contribuiscono a dare dignità, né al lavoro, né a chi le percepisce. Non sono tanto sicura che questa misura sia, così com’è, sostenuta da Landini. A me sembra che Landini (già dal 2018, quando era in discussione, e continua a ribadirlo) abbia sempre parlato della necessità, come vige negli altri paesi Europei (per non parlare di altri Stati) di garantire un salario minimo (sempre a proposito di dignità) ai lavoratori e che il reddito di cittadinanza doveva servire a cercare lavoro e alla formazione, non a garantire un assegno ad libitum senza nulla in cambio. Dal mio punto di vista si dovrebbe parlare di “lavoro garantito” a tutti e non al di sotto di una certa soglia di salario. E aggiungo: siccome “è giusto” (concetto che secondo me include la giustizia sociale, economica ed ecologica) che ad ogni guadagno corrisponda una controparte in termine di lavoro (eccezione fatta per chi non può lavorare), finché non si perviene ad una formula più efficace, l’attesa del lavoro dovrebbe essere colmata , oltre con la formazione (alcune ore al giorno) con altre ore dedicate alla cura dell’ambiente, degli anziani soli e altri servizi territoriali.
Un altro articolo di Dario molto stimolante perchè, credo, tocca tutti gli aspetti del problema del lavoro evidenziando come, nel breve – medio periodo, le politiche economiche di contrasto agli effetti occupazionali negativi della pandemia e della guerra in Ucraina, abbiano trovato nei nostri governi e in Europa, efficaci misure di contrasto e persino di rilancio. In effetti, alla luce di questa considerazione, sostenere che i più recenti provvedimenti assunti soprattutto dal Governo Draghi, siano stati peggiorativi della condizione del lavoro nel nostro paese, mi sembra fuorviante per non dire del tutto sbagliato. Un conto, infatti, sono le vicende recenti un altro le tendenze di fondo che da alcuni decenni caratterizzano, nell’occidente democratico “avanzato”, il mercato del lavoro. E’ su questo secondo fronte che, penso, sarebbe più corretto rilevare l’aggravarsi della condizione complessiva del lavoro in larga misura dovuta al permanere di antichi problemi che nè il centro-destra nè, tanto meno, il centro-sinistra (con il quale il sindacato ha spesso concertato le proprie politiche) hanno saputo risolvere. Penso, per esempio, al problema della precarietà, alla flexicurity, alla finanziarizzazione e alla globalizzazione dell’economia che hanno ridotto ulteriormente le opportunità di partecipazione dei lavoratori, alla mancanza di una formazione professionale all’altezza di un’economia avanzata, al problema della sicurezza nei posti di lavoro e, infine, per ultimo, ma non ultimo, quello di una retribuzione dignitosa a fronte di un lavoro onorevole.