di Gabriella Morello
Anch’io ho trovato molto interessante l’articolo “The virtue of discretion: When the rules break down, you must judge what to do on your own. Discretion is necessary for navigating the muddle of life” di Lorraine Daston, oltre che per la distinzione tra regole pesanti e regole leggere di cui tratta il contributo di Bruno Perazzolo, soprattutto per l’importanza che l’esempio, l’eccezione e l’esperienza hanno per la “longevità” delle stesse regole pesanti, ovvero di quelle regole che consideriamo fondamentali per la nostra esistenza sia individuale sia collettiva.
“But then they go on to fatten that precept with examples, exceptions and appeals to experience (call them the three exes)”. Traduco: “ma poi vanno ad ingrassare quel precetto con esempi, eccezioni e appelli all’esperienza (chiamateli le tre e)”, significa innanzitutto, per come la vedo io, che ogni regola non può essere intesa come un mandato universale e astratto da applicare meccanicamente. Per essere davvero efficace deve poter fare da supporto alla comprensione e alla regolazione di una situazione concreta. Senza questa discrezionalità tutte le regole rischiano di essere inutili. Applicare le regole senza la discrezionalità, in modo rigido, vuol dire non comprendere pienamente una situazione e non saperne dipanare le ambiguità. Attenzione però a non confondere la discrezionalità con la soggettività o l’autoreferenzialità. Non si tratta di adattare le regole alle circostanze per trarne vantaggi. Come uscirne? Con la saggezza che deriva dalla riflessione sull’esperienza: “cognitive discretion without executive discretion is impotent; executive discretion without cognitive discretion is arbitrary”. Traduco: “la discrezionalità cognitiva senza quella esecutiva è impotente; la discrezionalità esecutiva senza quella cognitiva è arbitraria”. Sennonché, saper riflettere sulle situazioni, distinguere le variabili e scegliere la regola più adeguata per regolamentarle non sono operazioni cognitive per tutti, in particolare non lo sono per le macchine e i loro algoritmi, che non possono adattarsi alle circostanze impreviste. Macchine e algoritmi non esercitano la capacità di giudizio, ma possono esserci di aiuto per limitare la volubilità umana. Questa pare essere una conclusione interessante, ma sarà sufficiente all’uomo per convivere con l’intelligenza artificiale?
E’ molto bello questo dialogo tra Bruno e Gabriella: per salvarsi (perchè di questo si tratta!) nell’attuale fase autodistruttiva della civiltà l’umanità ha bisogno di longevità (il “nucleo benedettino” che dura nel tempo), esempio (figure di riferimento che incarnano il modo di vita dell’ “essere uomini”) ed esperienza (la saggezza che conferisce alle regole fondative la vivezza del lavoro culturale che tutti svolgiamo nel tentativo di riflettere, rinnovare e portare avanti il testimone – promessa che ci è stato consegnato).