di Daniela Mario
Per me la meraviglia ha a che fare con la “curiosità”: se siamo curiosi andiamo alla ricerca di cose nuove, di allargare i nostri orizzonti, ed è così che spesso ci si imbatte in qualcosa di “meraviglioso”; quello stato che si prova di fronte a qualcosa di inaspettato, ma che siamo pronti a ricevere. É questa possibilità d’incontro (l’inaspettato desiderato) che genera secondo me ammirazione, stupore, incanto, ma anche soggezione, smarrimento di fronte a qualcosa più grande di noi, ma verso la quale ci sentiamo attratti, affascinati, forse perché contiene tratti di “mistero”.
E’ qui che la meraviglia abbraccia il mistero, che ci spinge verso la continua ricerca, non tanto di risposte, ma delle domande più consone rispetto al punto in cui siamo.
Non abbiamo bisogno di scomodare la scienza per pensarci propensi “naturalmente” a cercare di capire quello che non capiamo; “siamo fatti” per inseguire il mistero (fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza ) e di conseguenza per meravigliarci (emozionarci) di fronte ad ogni passaggio verso lo svelamento, anche quando questo sembra allontanarsi sempre di più.
È come se, più si allargano i confini dello scibile, più vediamo quanto è vasto e misterioso quello che non sappiamo. Secondo me è proprio questo sentirsi tanto vicino quanto lontano dalla meta che ci emoziona. Bellissima la metafora dei naviganti utilizzata dal premio Nobel Giorgio Parisi per spiegare il senso della scienza (in In un volo di storni, 2021; p.104).
Pensiamo infatti a come procede la scienza, ma anche l’arte in tutte le sue forme (la poesia, la musica…).L’uomo di scienza, come l’artista o il poeta, s’interroga continuamente per cercare “forme” (cioè modelli, schemi, parole) che esprimano al meglio quello che ha in mente (il che ci restituisce bellezza). In virtù di questo andirivieni tra idea e forma esterna (una formula, una pennellata, un accordo, una terzina…) si crea una dinamica intersoggettiva che chiarisce (svela) sia l’idea (che prende progressivamente forma) che la forma (che rispecchia sempre più l’idea).
Quando poi l’uomo comune incontra questi capo-lavori si emoziona, si stupisce perché prova (simula, con le parole di Vittorio Gallese) le stesse emozioni provate dallo scienziato (sempre che comprenda la scoperta e le sue implicazioni) o dall’artista, in quanto si rispecchia, risuona alle parole che legge o alle forme che vede.
La meraviglia che si prova di fronte ad un quadro, una scultura, una foto, le immagini di un film, è espressione, secondo Gallese, dell’innata intersoggettività (in Lo schermo empatico. Gallese e Guerra; 2015) cioè quella predisposizione a “sentire con” l’altro o “con qualcosa” che percepiamo automaticamente in sintonia con tutto me stesso (corpo e mente).
Questo stato di risonanza che si manifesta nell’intersezione tra interno/esterno è quello che chiamiamo “empatia”: anche di fronte ad un’opera arte noi empatizziamo, ovvero risuoniamo alle forme e ai movimenti-gesti-azioni-emozioni che cogliamo nell’oggetto che stiamo contemplando, allo stesso modo in cui risuoniamo quando percepiamo una similarità con gli altri (di forme, stili, visioni, intenti…)
Se questa percezione di similarità trovasse terreno fertile nei contesti scolastici, si creerebbe quello stato di sintonizzazione tra docenti e allievi che farebbe esperire la meraviglia del “conoscere con leggerezza”, o come sottolineano A. Chirico e A. Gaggioli nel testo La profonda meraviglia (2021):
“Il docente “profondamente meravigliato” è colui che sa operare un contagio emotivo sui propri discenti.”
Incontro, risonanza sono aspetti cruciali della meraviglia che pongono il soggetto necessariamente in rapporto con qualcosa, una realtà più grande, che l’IO non controlla, che non può programmare o scegliere. Mi pare che questo sia vero persino nel caso estremo di Narciso che specchiandosi nell’acqua si innamora di sè e scopre la “vera” natura dell’uomo: quell’abisso gnostico che sta alle fondamenta della modernità. In altre parole si può ben essere narcisisti, ma non si può scegliere di essere narcisisti.
cara Daniela, è notevole l’espressione “l’inaspettato desiderato” in quanto la meraviglia viene incontro a chi la cerca, a chi aderisce alla natura impulsiva dell’essere umano e si pone all’inseguimento del mistero. La necessità esistenziale di questa ricerca significa che esiste in noi una sproporzione radicale tra il desiderio di scoprire la chiave dell’enigma di cui siamo costituiti, la stessa che costituisce il reale, e la nostra capacità di trovare una risposta soddisfacente. Ma significa anche che spesso i nostri tentativi di afferrare il senso delle cose, e compiere così la nostra illusoria “autorealizzazione”, sono dettati da quello che Max Weber chiama “il demone che tiene i fili della nostra vita” e questo ci porta a fare scelte sbagliate, su terre desolate e senza vita, per poi ritornare nella prigione e nella fragile sicurezza del nostro io, a commiserarci ed anche a consolarci in quanto “gli altri non mi capiscono”. Io vedo la meraviglia come il modo in cui si manifesta l’altra forza che sostiene il mondo, la chiave del mistero che è riposta nell’antica religione-saggezza dell’umanità a partire dalla grande epopea sumera di Gilgamesh. E’ nascosta qui la forza che legava e indirizzava i cuori e fecondava le sorgenti della vita. Quello a cui ti riferisci con la parola “fertile”. La voce che parla tramite la meraviglia “lavora” risvegliando il nostro desiderio profondo con un improvviso e vivido empito e indicandoci la strada della vita “buona”, ci spinge a fidarci ed uscire dai nostri circoli viziosi infecondi. Il mistero del mondo non è una illuminazione della mente ma riguarda un segreto alimento dell’anima e del cuore che libera dalla paura e dalla pretesa di farsi da sé. Che dispone alla serenità ed alla levità. Mette a tacere i demoni e le loro compagne inseparabili, la presunzione e lo svuotamento. Porta con sè una regola che rinnova la vita.