Cenni incompleti sui diversi significati della parola libertà
di Bruno Perazzolo
Annotazioni redatte in preparazione dell’incontro di PensarBene del 31 marzo ‘23
Una prima idea di libertà, probabilmente la più antica e universale, è quella secondo la quale libertà significa vivere secondo la propria natura o, più correttamente, secondo la propria tradizione: un mix di natura e cultura. E’ un’”idea animale” di libertà. Nella maggior parte dei casi, un’emozione che sperimenta ogni essere vivente in gabbia o in un allevamento intensivo. Nel caso dell’uomo la schiavitù è il contesto nel quale questa rappresentazione della libertà affiora spontaneamente e prende voce. Come nel film “Spartaco”, di Stanley Kubrick, o nell’esperienza del proletariato descritta da Friedrich Engels in “La situazione della classe operaia in Inghilterra” scritta nel 1842 e ripubblicata da Feltrinelli nel 2021. La stessa esperienza che, credo, sia stata a fondamento delle cosiddette primavere arabe, iniziate con il clamoroso gesto di protesta di Mohamed Bouazizi, il giovane venditore ambulante tunisino che il 17 dicembre 2010 si è dato fuoco nella cittadina di Sidi Bouzid per protestare contro le vessazioni subite dalla polizia. E, ancora, il genere di sentimento che probabilmente sta attualmente attraversando il cuore del popolo iraniano e delle tante donne che, in quel paese, fronteggiano a mani nude la feroce teocrazia che le tiranneggia.
La libertà che viene dal rapporto con il Divino ultramondano
Un’altra idea di libertà, un po’ meno antica e decisamente più umana, è quella gnostico – dualistica. Questo concetto nasce, credo, dall’esperienza del mondo come sofferenza e solitudine e conclude che tutto ciò che ha a che fare con la materia e la corporeità corrisponda al male. In questo caso la libertà è quella dell’eremita, del perfetto, dell’eletto, dell’individuo che basta a se stesso e che prende le distanze dall’uomo comune inteso come parte organica di un tutto olistico, come parte della società intesa come comunità. Dell’individuo che, sentendosene straniero, con opportune tecniche, fugge dal mondo e dalla prigione della carne nell’ottica di un’unione mistica con lo spirito universale del bene. Le origini della gnosi risalgono agli inizi della storia: alla formazione delle città mesopotamiche (3000 a. C.), ai grandi imperi antichi (Egitto – 3000 a.C. ecc.). Ne sono esempi particolarmente chiari il Manicheismo e, secondo molti, in Europa, l’eresia medievale Catara che Denis De Rougemont – in L’Amore in Occidente, Mondadori 1998 – sostiene essersi “inabissata” per riemergere, criptata, nell’amore cortese[1] prima e, sino ai nostri giorni, in tanta parte della letteratura e della poesia occidentale. Luis Dumont – Essai sur l’individualisme, éditions du Seuil 1983” – ritiene che l’istituzione del Renonçant (il Rinunciante) sia presente nella civiltà indiana sin dalle sue origini per diffondersi successivamente in Grecia, già nel 300 a.C. circa, con l’ellenismo.
Una terza idea di libertà, centrale per la cultura occidentale, è quella Cristiano – Cattolica (I sec. d.C. ad oggi). Il concetto deriva da un lungo processo: una sintesi tra il dualismo orientale – ellenistico, l’ebraismo e lo stoicismo dapprima greco (Zenone V sec. a. C.) e poi ampiamente diffuso nell’Impero Romano (Seneca I sec. d.C.). L’uomo “naturale” è peccatore in quanto dominato dalle passioni quali aggredire i propri simili, fare razzia della ricchezza altrui ecc.. Egli, però, può emanciparsi da tutto questo in forza della sua attitudine alla libertà intesa come possibilità di aderire consapevolmente, quindi come individuo, alla volontà di Dio. Legge, quest’ultima, che promette di cambiare il mondo in meglio salvando – finalmente – sia l’uomo sia il mondo. In altre parole, si tratta della visione messianica della storia rappresentata come un processo pedagogico – progressivo di liberazione. Quella che Karl Löwith chiama “la fede nella storia”[2]. Ne consegue che, a causa della rinuncia alle passioni e dell’adesione alla legge Divina, il cristiano si trova ad occupare, su questa terra, una posizione “ambigua”. Da un lato non può separarsi dal mondo, dove il bene e il male si mescolano, dovendo, al contrario, prendersene cura per mezzo delle opere di carità. Da qui l’obbligo del credente di convivere con la mondanità: “date a Cesare quel che è di Cesare”. Dall’altro lato, però, in forza del rapporto singolare con Dio e la storia, il cristiano diventa un permanente “sovversivo”, sempre aperto a cogliere nella realtà i segni di un nuovo stato nascente e/o di un’ulteriore tappa nel progresso dello Spirito: “date a Dio quel che è di Dio”. Sennonché, il punto cruciale – quello che stabilisce una differenza profonda tra Cattolicesimo e Protestantesimo prima e Cattolicesimo e Illuminismo dopo – è dato dal ruolo di intermediario, tra Dio e l’uomo, svolto dalla comunità dei fedeli: la Chiesa Cattolica. Questa presenza fa della missione salvifica cristiana un fatto collettivo scandito da tappe che Dumont[3] non esita a definire “olistiche”. Tappe, cioè, in cui l’insieme prevale ancora sulla parte.
Una quarta idea di libertà costituisce un autentico spartiacque tra medioevo e modernità[4]. E’ l’idea contenuta nella Riforma Protestante che realizza appieno, sia pure su un piano ancora prevalentemente intellettuale o preborghese, l’individuo sia nel suo rapporto con Dio sia nel suo modo di stare nel mondo, togliendo di mezzo il ruolo di intermediario della Chiesa. La missione salvifica si trasforma così da impresa di popolo a impresa di individui che volontariamente si sottomettono alla legge Divina cercando immediatamente, nelle loro opere (l’attività economica finalizzata all’accumulazione di capitale[5] piuttosto che al soddisfacimento dei propri bisogni / piacere), la giustificazione, ovvero l’evidenza, mai del tutto certa, della grazia ricevuta e della giusta strada intrapresa che ora, non potendo più venire dalla comunità di fedeli, non può più venire da nessun altro uomo (da nessuna relazione o riconoscimento sociale). Su questa idea di libertà si fonda anche il primo illuminismo (Cartesio, Pico della Mirandola ecc.) dal momento che la ragione, morale e non, che deve guidare l’uomo prevalendo sulle passioni, trova nella fede il fondamento, la certezza della verità dei propri principi[6].
La libertà senza Dio
E’ all’interno dell’Illuminismo settecentesco, quello francese in particolare, che il rapporto tra ragione e religione viene ad affievolirsi sempre di più, passando per il Deismo (Voltaire, Montesquieu ecc.), sino a sparire del tutto in alcuni autori dichiaratamente atei: il barone Paul Henri Thiry d’Holbach, Jean Meslier ecc.. Lentamente avviene, dunque, un altro passaggio fondamentale: l’uomo moderno occidentale – che già il Protestantesimo aveva trasformato in un “individuo maturo” liberato dalla società olistica (comunità) – affronta, con il “movimento illuminista”, una seconda impresa titanica: quella dell’emancipazione dal Divino e dalla Religione per fondare solo su se stesso la propria relazione con il mondo del quale ora si sente “assoluto proprietario”.
Ferdinand Tönnies, nel suo classico saggio “comunità e società”, del 1887, parla di questa trasformazione utilizzando il termine COMUNITA’ per indicare la società tradizionale – olistica, riservando il termine SOCIETA’ al tipo moderno, individualista, quale emerge dall’intera riflessione giusnaturalista e dall’economia politica. In quest’ultima accezione, incentrata sull’idea che la condizione naturale dell’uomo universale sia quella dell’individuo libero e isolato, la società e lo Stato cessano di rappresentare quella superiore entità organica e originaria che necessariamente ingloba la persona come parte di sé. Stato e società diventano meri costrutti, nient’altro che artifici tecnici al servizio dei singoli e delle loro relazioni essenzialmente finalizzate allo scambio di beni e servizi: diventano relazioni esclusivamente economiche. In altri termini i rapporti tra gli uomini vengono ridotti al mercato rispetto al quale lo Stato esercita una funzionale indispensabile, ma subordinata.
In tutto ciò l’azione umana mantiene, tuttavia, ancora un ancoraggio: l’assioma dell’esistenza di una RAGIONE UNIVERSALE AGNOSTICA; l’ipotesi che sia possibile fondare su quest’ultima un linguaggio planetario capace di assicurare la reciproca comprensione degli individui all’interno di un mercato potenzialmente mondiale.
E’ in questo contesto che la “libertà moderna” compie un ultimo salto di qualità quando il diritto naturale (Hobbes, Locke, Rousseau, Kant) diventa diritto positivo (Kelsen) e il filosofo (Friedrich Nietzsche soprattutto) e il Poeta (Giacomo Leopardi ad esempio) sostengono, secondo Emanuele Severino, non solo che Dio e tutti gli Dei sono morti, ma anche l’impossibilità di giungere mai a quella verità incontrovertibile, alla ragione ultima, che “annienti” l’Hybris, ovvero la tracotanza del “divenire” intesa come attitudine dell’uomo a violare “legittimamente” ogni limite. A questo punto il cerchio si chiude. Ogni possibile emancipazione è stata consumata e la soggettività completamente liberata da ogni legame, da ogni costrizione esteriore sia essa rappresentata dalla Natura, da Dio, dalla Comunità, dalla Ragione e, nella versione più radicale, quella anarchica, financo dallo Stato nella sua versione più soft: quella che lo pone all’esclusivo servizio del mercato. E’ l’apoteosi postmoderna della libertà, la LIBERTA’ ASSOLUTA, egocentrica, narcisistica (L’isola delle rose: regia di Sydney Sibilia, Italia 2020) a fronte della quale ogni delinquente diventa, ipso facto, innocente (Nietzsche) e l’uomo gioca a fare la divinità (J. Goodfield, Giocare alla Divinità, Feltrinelli 1981) credendosi Dio (Y.N. Harari, Sapiens, da animali e Dei, Bompiani 2017). Un gioco, questo della completa deregulation economico – antropologica, nel quale, a quanto pare, solo in pochi finiscono per riconoscersi trovando nella propria vincita, cioè nella perdita altrui, il riscontro sociale della propria elezione e in quanto dotati della fede in se stessi (Pessoa, il banchiere anarchico). Alla maggior parte delle persone – lungi dallo sperimentare il paradiso in terra promesso della tecnica e dalla crescita economica infinita (K. Marx, O. Wilde) – tocca invece sopportare il dolore della solitudine e dell’impotenza, l’incertezza e il terrore che predispongono ovunque l’individuo all’accettazione del tiranno nella sua versione postmoderna: quella di uno STATO TOTALITARIO che dispensa VERITÀ INCONTROVERTIBILI in luogo della comunità e della religione[7] delle quali gli uomini, divenuti cittadini, a cuor leggero, ingenuamente hanno ritenuto di poter fare a meno.
Il tramonto della libertà assoluta: Stato Totalitario o Nuova Comunità: la libertà come partecipazione
Nella sua celebre canzone, Giorgio Gaber, ironizza sulla vulgata della libertà assoluta figlia ostentata soprattutto degli anni ’60. A questa idea contrappone un’accezione della libertà, l’ultima di questa mia rassegna, che ritengo sia assai più promettente per la “gente comune”: quella DELLA LIBERTÀ COME PARTECIPAZIONE. Allo stesso concetto penso richiami l’art. 3 comma 2 della nostra Costituzione quando, con straordinaria lungimiranza, parla di “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Se, infatti, la libertà assoluta è un parto dell’ideologia borghese, probabilmente già declinante, mi sono chiesto come, da sempre, sia concesso alla stragrande maggioranza delle persone di sperimentare l’essenza della libertà sentendosene partecipi, sentendosi protagoniste, soggetti piuttosto che meri oggetti della storia. La risposta, credo, possa essere ritracciata in quelle che, volgarmente, vengono indicate come “le grandi narrazioni”. Racconti sorti “in Illo Tempore”, non si sa dove non si sa quando, aderendo ai quali l’individuo si fa persona, e, come parte della comunità che in quella particolare narrazione si riconosce e in cui si costituisce, SENTE che il suo passaggio su questa terra non è avvenuto invano, ma che, invece, lascerà un segno collettivo destinato a non morire mai, “nei secoli dei secoli”.
[1] ma pure nell’amore libertino: Henri-Charles Puech, “Sulle tracce della Gnosi”, Adelphi 1985
[2] K. Löwith, storia e fede, Laterza 1985. Dello stesso autore, Saggi sulla storia, Sansoni, 1971
[3] L. Dumont, Essais sur l’individualisme, editions du Seuil 1983
[4] F. Fukuyama, l’identità, UTET 2018
[5] l’accumulazione di capitale rimanda al lavoro comandato degli economisti classici e sta a significare l’investimento nel futuro teso a realizzare il regno di Dio in terra.
[6] L. Dumont, Homo Aequalis, Adelphi 1984
[7] comunità e religione, tendenzialmente, sono fonti di norme consuetudinarie spontaneamente generate dalla vita sociale, piuttosto che di regole statuite, cioè deliberate da un’autorità.
Propongo la definizione di un filosofo russo (non sto scherzando!) letto molti anni fa e di cui non ricordo il nome: LIBERTÀ È LA POSSIBILITÀ DI ESSERE DIVERSI.
Sono lontanissimo, per mio limite, dell’approccio dotto del saggio di Bruno, ma, tutte le volte che in vita mia ho dovuto confrontarmi con l’idea di libertà, quella definizione mi ha sostenuto senza fallare.
Caro Paolo, il mio saggio breve, per definizione incompleto, come dico nel sottotitolo, voleva essere esattamente quel che il titolo annuncia: un lavoro sui diversi significati del termine libertà elencati, per cenni, in ordine “cronologico”. Intitolare il saggetto “LIBERTÀ È LA POSSIBILITÀ DI ESSERE DIVERSI” significherebbe tradire lo spirito del lavoro orientato ad aprire il confronto piuttosto che a chiuderlo; infatti il lavoro è stato pensato come introduzione al prossimo incontro del 31 marzo di pensarbene. Vero è che, soprattutto la chiusura critica, manifesta implicitamente le mie “preferenze”, ma ho fatto il possibile affinchè queste ultime non distorcessero le altre nozioni possibili del termine libertà. Ci sono riuscito? Non ci sono riuscito? Spero solo che l’epiteto di “dotto”, che da qualche tempo mi sento attribuire da alcuni amici quando scrivo articoli del genere, non sia indicativo di un handicap. Grazie del commento
Hai ragione. Il fatto è che di fronte a tanta astrazione mi vien voglia di prendere la zappa e andare a zappare, giusto per concludere qualcosa.
Di libertà si può e si deve discutere, a cominciare dall’articolo. ( Parliamo della Libertà o delle libertà, come Mussolini e poi Berlusconi preferivano?)
Ma a me sembra di rilevare, in questo blog, una ispirazione accademico- teorica, un poco astratta. Colta, intelligente e rispettabilissima, s’intende, ma lontana dal sudore e dal sangue dei problemi che viviamo.
Non mi sento consonante con la vostra impostazione, anche se per curiosità e per amicizia continuerò a seguirvi.
Grazie per la disponibilità a seguirci e l’amicizia. Quanto all’astrazione è vero, il nostro vuole essere un luogo di approfondimento di cui pensiamo ci sia tanto bisogno se si vogliono poi fare bene le cose.
In breve e con parole povere, aldilà dei concetti sulla libertà espressi da dotti benpensanti o malpensanti, valgono le parole di Gesù Cristo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Concludo con il mio credo secondo il quale la libertà è quella condizione che ti permette di condividere con gli altri il rispetto della propria e della altrui dignità e del diritto di vivere in un mondo di pace globalizzato regolato non solo da una economia di libero scambio ma, attraverso il dialogo, la risoluzione dei conflitti geopolici.