Resoconto dell’incontro del 21 ottobre ’22
Eguaglianza sostanziale e eguaglianza politica: la rinuncia al ruolo civico delle élite
L’eguaglianza sostanziale è l’eguaglianza nelle condizioni materiali di vita. Secondo tutte le statistiche, in tutti i paesi cosiddetti Occidentali, la forbice delle disuguaglianze si sta allargando notevolmente sia in termini di reddito, sia in rapporto alla qualità dei servizi pubblici: welfare state: in primis istruzione, formazione e sanità pubbliche. Aumenta la povertà assoluta, ma anche cresce quella relativa che significa l’assottigliamento del ceto medio: la base sociale della democrazia.
In questo contesto si comprende l’indebolimento dell’eguaglianza politica, ovvero dell’idea che, malgrado ogni evidente differenza, ciascuno possa considerarsi uguale agli altri in virtù del peso che riesce ad esercitare nella vita pubblica. Quest’ultimo tipo di eguaglianza non può però essere misurato in termini materiali, cioè come valore economico. Si tratta, infatti, di un sentimento diffuso, a sua volta strettamente connesso all’identità ed ai valori coltivati da un popolo. Un sentimento che, tuttavia, interagisce con l’eguaglianza materiale dal momento che la crescente distanza tra “ricchi, meno ricchi e poveri” solleva un problema di riconoscimento, di rispetto e di dignità da parte di chi si sente messo ai margini, invisibile, non rispettato e ferito nel proprio orgoglio. Ma anche di chi partecipa in modo convinto alla vita della società attraverso il proprio lavoro e la propria impresa, e che si indigna nei confronti di chi riceve sussidi o acquisisce ricchezze considerevoli con attività di natura parassitaria o speculativa. In altri termini, irrilevante rispetto “al progresso materiale e spirituale del proprio paese” (art. 4 Cost.).
L’aumento delle disuguaglianze, l’accumulo di ricchezze tramite attività economiche di dubbio beneficio per la collettività, l’astensionismo e l’elevata mobilità del corpo elettorale (crisi della rappresentanza), costituiscono le maggiori evidenze della rinuncia al ruolo civico delle élite che, al di là della retorica, non si occupano da decenni, e sempre più chiaramente dagli anni ’80, delle questioni relative all’eguaglianza, alla giustizia ed al futuro del nostro Paese. Segno di una crescente deresponsabilizzazione, dell’assenza di cura insita nell’incipiente separazione di “mondi” divisi da barriere di classe viepiù insormontabili. E’ in questo contesto che nascono le “nuove periferie” come luogo “anomico”, mentre i borghi si trasformano in dormitori non meno impersonali. Una realtà che viene oscurata dall’ideologia meritocratica, utilizzata come giustificazione dello slegame tra élite e quel che resta di un “popolo” ridotto, piuttosto, ad un “aggregato massificato”.
La democrazia: diritti sì, ma soprattutto doveri.
La democrazia è un dono. Diritti fondamentali quali la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), la libertà di religione (art. 8 Cost), la libertà personale (art. 13 Cost.), il diritto a partecipare alla vita pubblica tramite il voto e la libera associazione (libertà / diritti politici artt. 18 e 48 Cost), la parità uomo donna (art. 3 Cost.), non sono scontati. In questi giorni il caso del velo e delle brutali reazioni della teocrazia islamica in Iran, la repressione delle manifestazioni popolari in Cina legate alle pandemia, la propaganda associata alla negazione del dissenso e di ogni forma di opposizione politica in Russia, ci ricordano drammaticamente questo fatto: le libertà, i diritti non cadono dal cielo. Sono valori (religione laica) fragili di cui occorre prendersi cura, ed è proprio sulla necessità della cura che iniziano i doveri di cittadinanza e il discorso sul rispetto degli standard sociali. La democrazia comporta un impegno cui, in molti, hanno corrisposto anche con il sacrificio della propria vita per consegnare a noi questo bene. Ma il dovere della cura non viene meno nelle persone degli eredi. Se in democrazia la sovranità appartiene al popolo (art. 1 della Costituzione), il popolo ha una grande responsabilità! Ma il popolo è consapevole di questo potere? Si interroga su come esercitare questa responsabilità? Certamente il popolo sa di disporre di importanti libertà in base alle quali può scegliere di fare o non fare diverse cose. C’è da chiedersi però se questa “fondamentale possibilità” può includere la libertà di fare quello che si vuole, a prescindere dagli effetti che il nostro agire ha sugli altri. È abbastanza evidente che spesso la parola “libertà” viene usata come sinonimo di possibilità illimitate (V. i comportamenti durante la pandemia) mentre la libertà di scelta dovrebbe essere sempre esercitata considerando le conseguenze che la mia scelta ha sugli altri. È in questo esercizio che si esprime l’etica di ciascuno di noi. Avere coscienza di non essere delle monadi, ma di far parte di un insieme di persone, presuppone che nessuno goda di una libertà assoluta, quanto piuttosto di una libertà che, come la sovranità, va esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione. Il fatto che la democrazia abbia bisogno di dotarsi di leggi che puniscono coloro che non le rispettano è la prova che la nostra non può essere una libertà “libertina”, ma una “libertà democratica”. Il rapporto tra democrazia e libertà è una questione molto delicata, ma proprio in questa difficile relazione sta la forza e il valore di entrambe. Ed è sempre su questo punto che fa testo la differenza tra tolleranza e indifferenza e tra rispetto e compassione. Tollerare chi non adempie ai propri obblighi di cittadinanza per esempio non pagando le imposte (art. 53 Cost), danneggiando piuttosto che difendendo i beni pubblici (art. 52 Cost), insultando chi la pensa diversamente (artt. 19 – 21 Cost.), non andando a votare (magari anche solo per votare scheda bianca) art. 48 Cost., rifiutandosi di rispettare la legge (art. 54 Cost.) o cercando di sottrarsi al lavoro (art. 4 Cost.) ecc., non è sinonimo di apertura, ma di indifferenza. Idem per il rispetto: posso capire chi non va a votare, chi cerca di sottrarsi al pagamento delle imposte, chi reagisce con la violenza di strada ad una burocrazia sorda o ad un licenziamento senza giusta causa ecc., ma non posso giustificarlo e, quindi, rispettarlo. Non si possono rivendicare i “diritti” senza assumersi i corrispondenti doveri di partecipazione e responsabilità. Esiste un dovere verso gli altri e verso se stessi che attiene al concetto di “onore” che deriva dal sentimento di star svolgendo al meglio la propria parte a favore della comunità, sentimento che rappresenta la dimensione “esistenziale” della democrazia.
Prendersi cura della comunità locale: solo un ritorno al passato?
La democrazia poggia su tre pilastri: lo Stato, il mercato e la comunità all’interno della quale quella locale, o di prossimità, assume un particolare rilievo. La cultura liberale ha esaltato il libero mercato e lo Stato in chiave ancillare. Le democrazie avanzate, basate sul suffragio universale e lo stato assistenziale o del benessere, hanno posto l’accento sull’intervento dello Stato in un’ottica parzialmente dirigista e redistributivo – consumistica. Infine, la globalizzazione ha prodotto, di necessità, un mix esplosivo di Stato e mercato dove, quest’ultimo, la faceva nuovamente da padrone in un contesto di crescente declino del welfare e di crescita esponenziale delle disuguaglianze. In tutti questi casi abbiamo assistito al sistematico svuotamento della dimensione comunitaria nel cui contesto, soprattutto, l’individuo si fa persona e viene introdotto alla trama di valori che ne alimentano l’anima e l’identità (i beni comuni) tramite la costante interazione (interazione in presenza) e la cura (assunzione di responsabilità), verso di chi gli sta vicino. E’ stato principalmente questo costante indebolimento, alimentato dall’ideologia meritocratica e della leggerezza / dello slegame, a portare al suo “massimo splendore” l’individuo postmoderno.
Ed ora “che fare” per fronteggiare queste sfide che minacciano le fondamenta stesse dei sistemi democratici? Giustamente si sottolinea come il conservatorismo comunitario nostalgico, per sua stessa natura, rappresenti una retorica ammissione di impotenza piuttosto che una plausibile visione del futuro. E’ chiaro che – ammesso che la cosa possa risultare desiderabile – il recupero della dimensione comunitaria non può affatto confidare su un generico appello volontaristico di “ritorno al passato”. La comunità, infatti, non nasce da grottesche prediche in salsa romantico – agreste, ma, semplicemente, dalla necessità di FARE INSIEME LE COSE.
Articolo 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Articolo 5
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
E’ dal desiderio di libertà, dal rifiuto del vittimismo, dell’assistenzialismo e dell’economicismo pseudorazionale, dall’assunzione diretta di responsabilità e dall’iniziativa dal basso che la comunità potrà rinascere dalla proprie ceneri intorno alla custodia del territorio, dei monumenti e del paesaggio, occupandosi degli anziani soli, della medicina “diffusa” e di una scuola veramente “bene pubblico” sottratta alla burocrazia per essere consegnata, in forza dell’autonomia, ad una vera apertura verso le “parti interessate” locali. Il futuro della comunità si chiama oggi cittadinanza attiva, nuova municipalità, democrazia partecipata (es. bilancio partecipato), volontariato, ma la differenza è solo questione di nomi. La sostanza è fatta sempre dalle persone che si attivano per fronteggiare la siccità tramite la realizzazione di piccole cisterne di comunità, la gestione decentrata delle fonti di energia rinnovabili, ecc. ecc. ecc..