La prospettiva dell’intelligenza comunitaria
di Dario Nicoli
Sarà che la “fragilità” nel nostro tempo si porta molto bene in tutti i ceti sociali, ma fa comunque impressione vedere il contrasto esistenziale delle élite tecnoliberiste in tema di Intelligenza artificiale. Un esempio eclatante è quello di Elon Musk che da proprietario di Twitter persegue una strategia ultra permissiva, mentre da “cittadino responsabile” è il primo firmatario di una lettera in cui oltre mille tra imprenditori e accademici chiedono una moratoria di sei mesi allo sviluppo di AI generative come ChatGpt. Un tempo necessario affinché pubblici poteri e imprese possano sviluppare protocolli di sicurezza, modelli di governance dell’AI e piani di ricerca per garantire che i sistemi di intelligenza artificiale siano più “accurati, sicuri e affidabili”.
Abbiamo già visto alcuni curiosi tratti delle nuove élite – nomadismo, disprezzo del popolo, rifiuto della responsabilità civica… – ma ora dobbiamo aggiungere a questa lista la paura che il proprio business sia amnnullato dalle tecnologie che essi stessi alimentano continuamente. Hybris e angoscia sembrano tenersi per mano in un ceto élitario senza alcuna appartenenza che vede il mondo come un immenso mercato fatto di individui tutti uguali che si muovono su comando dei moderni burattinai.
Lasciando agli esperti la complessa questione legale, è utile qualche pensiero sulla questione antropologica riassumibile nella domanda: davvero l’AI creerà un piccolo ceto di esseri dotati di intelligenza potenziata, mentre la massa degli individui dovrà accontentarsi della “vecchia” intelligenza naturale?
Va subito notato che si tratta di una domanda fuorviante, in quanto nonostante i progressi delle neuroscienze i misteri dell’intelligenza umana rimangono tali, motivo che impedisce di tradurli in funzionalità formali, in modo da poterle replicare tramite strutture artificiali di simulazione.
La questione risiede nel fatto che la nostra mente possiede un repertorio infinito di razionalità:
- la trance-logica, che permette al soggetto umano di agire in maniera coerente e ragionevole anche in situazioni contraddittorie;
- l’agentività umana, un’espressione che indica la particolare capacità di operare intenzionalmente nel mondo sociale in cui si vive, al fine di produrre un cambiamento seguendo un impulso indipendente dall’esito dell’azione;
- l’intelligenza emozionale, una facoltà che è andata progressivamente impoverendosi nella fase matura della modernità, dalla quale dipendono importanti facoltà umane quali la consapevolezza di sé, la capacità di autocontrollo, la motivazione, l’empatia e le abilità sociali, evitando che il nostro agire sia guidato da impulsi distruttivi e cattivi stati d’animo;
- il desiderio di significato, fattore più potente del bisogno nel muovere l’essere umano ad impegnarsi in una “vita significativa” in quanto ricca di compiti nella quale egli può sperimentare la sua libertà accettando uno sforzo che in termini di razionalità strumentale sarebbe invece da giudicare irragionevole;
- lo spingersi in avanti dell’uomo verso il possibile, tramite atti intenzionali che sono qualcosa che è nell’anima, in quanto egli è dotato della capacità di trascendenza, di superamento del ripiegamento su se stesso ovvero la condizione da cui deriva la vera minaccia di abolizione dell’umano.
Sotto questo profilo, la sfida dell’AI può rappresentare l’occasione per fare un passo in avanti nel cammino della consapevolezza umana, nella direzione di un’intelligenza comunitaria al cui centro vi siano i cittadini che, con il supporto controllato ed amichevole di una tecnologia di alta qualità, possono dedicarsi ad azioni di risposta ai bisogni della popolazione, tramite migliori cure sanitarie, trasporti più sicuri e puliti, processi di produzione più efficienti, maggiore cura del territorio ed energia più economica e sostenibile. Unite ad iniziative di convivenza, cultura, gioco e festa.
L’articolo contiene molti spunti stimolanti. Tra questi, molteplici considerazioni sull’AI. Rispetto al nostro cammino di PensarBene, con poche parole, coglie tre pietre miliari che credo siano state sin qui adeguatamente approfondite: 1) la natura delle nuove élite senza comprendere la quale qualsiasi analisi politico culturale è destinata all’inconsistenza per non dire ad aggiungere solo confusione ad un contesto già caotico di suo; 2) il rapporto libertario / sussidiario concepito dalle nuove élite riguardo allo Stato. Da un lato il loro stile mal sopporta qualsiasi norma, positiva o consuetudinaria / comunitaria, che ne limiti le facoltà economiche e civili, dall’altro lato si chiede che lo Stato intervenga nei “fallimenti del mercato”. In breve lo Stato è pensato come una specie di male necessario che deve sparire nei periodi di “vacche grasse” per ricomparire quando le cose si mettono male spalmando sull’intera collettività le conseguenza sgradevoli dei periodi “più allegri e spensierati”; 3) l’urgenza di una nuova intelligenza comunitaria che altro non è se non l’altra faccia di una condizione che – essendosi la classe dirigente trasformata in una oligarchia isolata dalla gente – ha ridotto il popolo a poco più di un aggregato informe di individui incapaci di “dare un nome alle cose”, ovvero ad una condizione di povertà spirituale prima ancora che materiale estrema e, perciò, aperta a qualsiasi forma di manipolazione: fattore quanto mai minaccioso per qualsiasi ordinamento voglia qualificarsi come democratico.
Grazie Bruno, hai ragione: l’”intelligenza comunitaria”, necessaria per dare un nome condiviso alle cose, è il fondamento di ogni democrazia.